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“Tagliate Male”, il nuovo libro di Anna Paola Lacatena combatte lo stigma della donna nell’uso delle droghe verso una nuova consapevolezza sociale

Hai una vasta esperienza nel settore delle dipendenze patologiche e hai anche ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per il tuo lavoro. Cosa ti ha attratto inizialmente a lavorare in questo campo? Grazie per la vasta esperienza, ma davvero credo di avere tanto da imparare e la cosa non mi dispiace, anzi. Nel settore ci sono capitata casualmente. Pensa che mi sono laureata con una tesi sul divismo in Sociologia delle comunicazioni di massa. Davvero c’entra poco con quello che di cui mi occupo. Volevo diventare una giornalista, inseguendo l’idea che l’informazione debba davvero informare. Quest’anno compio 30 anni di iscrizione all’Albo dei giornalisti pubblicisti. Ho scritto e continuo a scrivere ma nel mondo dell’uso e delle dipendenze ci sono capitata per caso. Le tematiche relative all’uso e alla dipendenza da sostanze e, più di recente, le dipendenze comportamentali hanno suscitato in me, e da subito, un grande interesse. Mi sono convinta che le droghe non siano solo una questione individuale e soggettiva, sono molto di più… una sorta di tomografia a emissioni di positroni in grado di fornire informazioni morfologiche sulla condizione socio-psico-culturale di un’intera società. È un settore in continua evoluzione e le droghe, che ci piaccia o no, pervadono l’intera società. In realtà, non è mai esistita e mai esisterà, per dirla alla maniera di Gunther Amendt, una società totalmente priva e questo sia che la stessa abbia un approccio permissivo o più criminalizzante e punitivo nei confronti del consumo.
Ciò che è venuto dopo in termini di pubblicazioni o di premi, credo sia, solo la conseguenza della curiosità e del mio desiderio di volerne sapere sempre di più, con l’obiettivo (ambizioso e irrisolto) di provare a fare conoscere tematiche complesse, troppo spesso semplificate dai media e dalla politica della ricerca del consenso. Non so quanto nel mio piccolo io ci sia riuscita. Quello che so che continuerò a provarci.

Nel tuo libro “Tagliate male” affronti il tema dello stigma associato alle donne consumatrici di sostanze. Quali sono, secondo te, le principali sfide nel combattere lo stigma sociale su questo argomento?
Parto dal presupposto che tutto ciò che non conosciamo ci fa paura ma allo stesso tempo esercita una vera e propria fascinazione. In ogni caso la conoscenza è altra cosa rispetto alla valutazione, al giudizio, alla condanna. Quando si tratta il tema del consumo di sostanze è necessario distinguere tra l’uso e la dipendenza vera e propria, tra il piacere e la malattia. Non è detto che il primo debba necessariamente condurre alla seconda, come certamente questa è partita dal piacere e della ricerca del piacere continua a nutrirsi. Non si dovrebbe ammassare, però, nel termine “droga” tutto ciò che presenta differenze e sfaccettature. La policromicità dovrebbe, intanto, indurci a parlare (o scrivere) di “droghe” perché non sono tutte uguali. Sono il massimo piacere concepibile per l’essere umano ma anche la sua più profonda dannazione. È il divino e il demoniaco, la scelta e la dipendenza, il piacere e il dolore. Le droghe sono divisive nelle scelte politiche e ideologiche ma anche socializzanti e conviviali oltre ogni naturale possibilità umana. Sono il tutto e il niente. È la definizione che di volta in volta la società ha stabilito a fissarne l’essenza e la funzionalità. Già disorientarsi in questo sarebbe un inizio interessante nel processo di de-stigmatizzazione. Ciò che, in nessun caso, può essere accettato sono la violazione dell’incolumità personale e le condotte mortificanti e lesive della dignità umana, anche se il tutto fosse finalizzato a tentare di aiutare la persona. Non c’è recupero –  termine infelice ma è per comprenderci più facilmente attraverso la squalifica, l’umiliazione, la colpevolizzazione, la criminalizzazione.

Di eroina in Italia si è sempre parlato poco e male. Soprattutto per quel che riguarda le donne che ne fanno uso. È una “colpa” che per queste ultime sembra pesare di più. Puoi condividere con noi un esempio concreto di come le donne con Disturbo da Uso di Sostanze siano percepite e trattate nella società moderna?
La negligenza e l’abuso nell’infanzia sono una caratteristica comune nelle storie personali di molte donne con Disturbo da Uso di Sostanze (DUS). Quando riescono a parlarne descrivono il loro consumo di droga come il miglior meccanismo di coping a loro disposizione. Abbandoni, traumi, violenze, abusi ricorrono con frequenza nei vissuti di queste donne, e certamente più che in quegli degli uomini, tanto da non permettere loro di riconoscerle nel corso della carriera tossicomanica, un po’ come se fosse parte integrante di un copione sempre uguale. A un’inziale vittimizzazione ne seguono altre e altre ancora sino a creare un vero e proprio determinismo sociale.
Non si perdona alle donne che utilizzano droghe la possibilità di essersi sottratte ai ruoli tradizionali di figure culturalmente designate all’accudimento (figlie, mogli/compagne, e soprattutto madri). Non si accetta che abbiano osato abdicare all’ideale di genere e a quanto imposto dalla più comune e, probabilmente condivisa, divisione sessuale del lavoro (diritti e responsabilità). Sono spesso associate alla promiscuità e alla negazione della vita, di cui nel nostro immaginario la donna stessa dovrebbe essere naturalmente portatrice. Dalla maggior parte delle persone tutto ciò è incomprensibile almeno quanto disdicevole.


E questa “disapprovazione” sociale cosa ha prodotto e continua a produrre nelle donne che fanno uso di droghe?
Condannare e marginalizzare possono tenere lontana la paura ma accentuano, dunque, la vergogna, il senso di colpa e di rifiuto, la rabbia. In estrema sintesi sono il sigillo socialmente condiviso al perpetuarsi di condotte che alimentano la devianza più che la possibilità di chiedere aiuto e di individuare percorsi di trattamento e cura. Il risultato è che fanno fatica a chiedere aiuto, a rivolgersi ai Servizi. Spesso, preferiscono continuare ad affidarsi agli uomini che hanno accanto, passando di dolore in dolore.


Nel tuo libro, parli della marginalizzazione sociale delle donne consumatrici di sostanze. Come pensi che la narrazione dei media abbia influenzato la percezione pubblica delle donne consumatrici di sostanze nel corso degli anni?

Credo che da molto tempo e ancora oggi, i media continuino a proporre i consueti cliché, in alcuni casi mettendo in evidenza le condizioni di alterazione della vittima più che quanto subito, suo malgrado. Salvo utilizzare il corpo della donna, attraverso una sensualità appena percepita o sguaiata, per veicolare prodotti legali ma non per questo con una minore pericolosità di indurre dipendenza (vedi la pubblicità delle sigarette di una volta, dell’alcol e del gioco d’azzardo oggi). Ciò che mi addolora e che non è infrequente quel, più o meno sottile, velo di condanna venga proprio dalle donne, in alcuni casi anche da quelle che tanto si sono battute per i diritti delle donne. Evidentemente le donne con DUS sono considerate meno tali di altre. Nel libro è possibile leggere di storie di consumo e dipendenza al femminile. È un raccontare che accorcia le distanze, che non ti fa sentire così diversa solo perché non hai mai utilizzato sostanze. Il bisogno d’amore, di essere vista e ascoltata, di sentirsi al sicuro non credo che sia una prerogativa esclusiva di alcune tipologie di donne e, credo, neanche delle sole donne.

Nel tuo lavoro di coordinatrice del Gruppo “Questioni di genere e legalità” per la Società Italiana delle Tossicodipendenze, hai riscontrato dei cambiamenti nel modo in cui la società affronta il problema delle dipendenze tra le donne nel corso degli anni?
Mi piacerebbe poterti dire che le cose sono cambiate nel corso del tempo. Non sai quanto mi piacerebbe, ma non è così. Indubbiamente c’è una maggiore coscientizzazione della necessità di un approccio che non sia neutro dal punto di vista del genere nell’ambito dei Servizi (pubblici e del privato sociale accreditato), sollecitate ormai da decenni da realtà nazionali e internazionali che si occupano del settore, ma siamo ancora lontani dai cambiamenti reali e profondi di cui ci sarebbe necessità per garantire sicurezza a queste donne, per facilitare il loro accesso al sistema della cura, per assicurare loro la giusta attenzione a quel bagaglio di vissuti che spesso recano con sé e di cui, altrettanto spesso, non sono coscienti.

Come pensi che la società possa migliorare nel supportare e assistere le donne con Disturbo da Uso di Sostanze?
È prodromico impegnarsi almeno per intaccare l’opinione pubblica in proposito. Contestualmente, credo che bisognerebbe pensare ad un’offerta più specificatamente orientata alle donne, facilitando l’incontro tra i Servizi e il loro più consueto quotidiano. Offrire luoghi dove potersi sentire accolte e non giudicate – i tanti casi, gli stessi operatori accentuano lo stigma più che combatterlo – ma soprattutto lavorare con e per loro con l’obiettivo di renderle autonome. Senza un lavoro, un alloggio altro da quello della famiglia di origine, un progetto di vita di cui occupare la centralità difficilmente eviteranno di ritrovarsi in altre relazioni tossiche (a vario titolo).

Hai collaborato con diverse testate giornalistiche e hai vinto premi giornalistici per il tuo lavoro. Qual è il ruolo che vedi per i media nel cambiare la narrazione attorno alle dipendenze e alla salute mentale?
Perdona il gioco di parole ma è fondamentale che il mondo dell’informazione si informi prima di informare… Esiste l’obbligo della formazione permanente a cui i giornalisti (pubblicisti e professionisti) sono soggetti ormai da anni. Credo che le Società scientifiche dovrebbero farsi sentire di più a tal proposito, sottoponendo all’attenzione degli Ordini regionali, e per loro tramite a quello Nazionale, proposte concrete di confronto con gli esperti del settore. Nello specifico in qualità di esperti faccio riferimento a chi studia questi fenomeni così come a chi ogni giorno si confronta con queste realtà. Il sentito dire, è bene resti fuori.  Creare degli spazi di informazione per il mondo del giornalismo potrebbe rappresentare un primo passo verso un’informazione meno tendente alla spettacolarizzazione o alla criminalizzazione. Scrivere correttamente e su evidenze non è un’opzione, è un dovere deontologico oltre che morale.

Hai partecipato a tavoli di lavoro per la stesura di politiche antidroga a livello nazionale. Quali sono, secondo te, le principali lacune nelle politiche antidroga attuali e come pensi possano essere affrontate?
La principale è farne una questione politica da utilizzare per cercare il consenso. Si parla di emergenze ma è asfittica la programmazione e la disponibilità di risorse. Non si investe sui Servizi (pubblici e del privato sociale accreditato) da decenni, soprattutto in termini di personale. La mancanza o i ritardi nel turnover, spesso, finiscono per impedire il passaggio di consegne e di know how tra chi va in acquiescenza lavorativa e chi subentra. Questo significa aggiungere alla già pervasiva burocratizzazione una sorta di spersonalizzazione del rapporto tra l’operatore e il paziente. Credo, inoltre, che il dibattito pubblico in Italia sull’uso delle droghe non sia un dibattito pubblico… In realtà il confronto è tra la posizione proibizionista e quella antiproibizionista ormai da quasi cinquant’anni. In pratica, dalla diffusione di massa dell’eroina, il presunto dibattito è quasi esclusivamente orientata all’affaire cannabis. Questo significa che c’è un mondo praticamente trascurato che poco ha a che vedere con la politica. Si tratta della vita delle persone, di migliaia di persone nel nostro Paese, che diventano milioni nel mondo. Penso alla legalizzazione del 2018 in Canada, alla Commissione Le Dain, alle 12.000 persone in 27 città e 23 università ascoltate, ai 14000 articoli letti, sino ad arrivare ad una definizione.
Te la faccio io una domanda: hai mai ascoltato le ragioni dei consumatori di droghe in Italia? … E non faccio riferimento alle loro storie collocate in pochi edificanti spettacolini televisivi.

Eh purtroppo no, Anna Paola…

Con il racconto breve “cento lire” sei diventata la più bugiarda d’Italia con questa motivazione del Presidente di Giuria Sandro Veronesi, Premio Strega 2006: …al primo posto la n. 25, “cento lire”, perché è diversa da tutte le altre, non riguarda la sostanza che viene servita ma una sfera molto più delicata e fragile, quella della forza trasmessa da un padre a una figlia. Potrebbe benissimo, quella bugia, essere una pagina di un bel romanzo, e leggendola si desidera essere quel padre, o quella figlia, o anche solo quei clienti che si fanno condizionare – insomma, di esserci dentro in qualche modo. Chapeau. Come ti sei sentita a vincere il premio sulla bugia dicendo la verità? E soprattutto come ti senti a raccontare cose vere in un mondo che racconta e costruisce bugie spettacolarizzando le notizie?
Sono molto orgogliosa del mio titolo, anche se è passato qualche anno…Non sono integralmente contraria alle bugie, per esempio se le stesse sono finalizzate a rendere un po’ più accettabile ciò che un bambino altrimenti non sarebbe in grado di sostenere.
Ecco, la bugia in alcuni casi può risultare addirittura salvifica. È un po’ come trovare i colori per ciò che altrimenti resterebbe troppo scuro. Quello che dobbiamo sotto gli occhi invece è spesso un mondo che ci tratta da bambini, con l’imperativo di rendere tutto indistintamente colorato o peggio contraffatto. Credo che in questo caso sia salvifico lo strumento della conoscenza e dell’approfondimento. Non abbiamo tante altre difese se non l’esigere dagli altri e prima ancora da noi stessi non solo verità comode. Può risultare impegnativo ma non c’è altra strada all’imperante massificazione e al finto sviluppo orientato dalla e alla parzialità.