di Pippo Gallelli
Dolore. Sgomento. Rabbia. E una domanda che pesa come un macigno: cosa dice di noi il modo in cui trattiamo i nostri eroi?
Aymane Ed Dafali aveva 16 anni. Era arrivato dal Marocco appena tre anni fa, con il sogno – condiviso da tanti – di un futuro migliore. Viveva a Castelnovo Bariano, un piccolo comune del Rodigino, dove frequentava la scuola serale e conduceva una vita semplice con il padre, la madre e i fratelli. Sabato 14 giugno, vedendo due persone in difficoltà nel canale Logonovo a Lido degli Estensi, non ha esitato: si è tuffato per salvarle. Non era un bagnino. Non era un nuotatore esperto. Era solo un ragazzo. Ma aveva un cuore immenso.
Quelle due persone – un uomo e una donna – sono state salvate. Lui no. Il corpo di Aymane è stato ritrovato senza vita. Aveva dato tutto, persino la sua esistenza, per salvare degli sconosciuti. Sconosciuti che ora risultano irreperibili. Si sarebbero allontanati da soli, senza lasciare nemmeno una parola, un contatto, un ringraziamento. Forse per paura. Forse per indifferenza. Forse perché, in fondo, chi salva la vita degli altri non vale più di chi gliel’ha restituita.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questa storia. Non solo nella tragedia in sé, ma in ciò che essa rivela di noi. Di come trattiamo chi viene da lontano. Di quanto rapidamente dimentichiamo i gesti di altruismo quando a compierli è “uno di loro”. Di quanto poco valore attribuiamo, nella narrazione collettiva, alla vita di chi non ha il nome, il volto, il passaporto “giusto”.
Se Aymane fosse morto in una rissa o fosse stato autore di un reato, sarebbe finito in prima pagina. I soliti noti avrebbero urlato all’invasione, al degrado, all’emergenza immigrazione. E invece è morto da eroe. Ma gli eroi, se hanno la pelle scura e l’accento straniero, vengono celebrati a mezza voce. Forse per pudore. Forse perché ci costringono a guardarci dentro. E a riconoscere quanto siamo diventati cinici, selettivi, ingrati.
La sindaca del suo paese ha parlato di una famiglia perbene. L’assessora regionale l’ha definito un esempio di umanità. Parole sincere, ma insufficienti. Perché il coraggio di Aymane non può restare confinato a una nota di cordoglio o a un post sui social. Va ricordato, certo. Ma anche compreso. E soprattutto raccontato. A chi ancora oggi vede negli immigrati un problema, una minaccia, un nemico.
Questa non è solo una cronaca di mare e correnti pericolose. È lo specchio di un’Italia che seleziona chi merita compassione e chi no. Un’Italia pronta a osannare un giovane straniero quando muore da eroe, ma spesso incapace di riconoscerne il valore quando è ancora in vita.
Ciò che resta è una comunità sotto choc, un padre distrutto, amici ammutoliti dal dolore. E un Paese che fatica ancora a guardare oltre l’etichetta dell’origine, del colore della pelle, della nazionalità. Serve una riflessione sincera: quanti Aymane ignoriamo ogni giorno? Quanti ragazzi come lui crescono nelle nostre città e nei nostri paesi, portando dentro speranze, valori, amore per la vita – ma senza che nessuno se ne accorga?
È tempo di spogliarci del cinismo e riconoscere una verità semplice: il coraggio, l’altruismo, la dignità non appartengono a un passaporto. Appartengono alle persone.
E allora lasciamo che le ultime parole siano quelle che contano più di ogni retorica. Quelle scritte da Domenico Iannaccone: “È morto così. Senza clamore, senza retorica. Con un gesto puro, istintivo, grande. Adesso tutti lo chiamano ‘eroe’. Ma fino a ieri, Aymane era solo un immigrato. Uno dei tanti. E se fosse stato protagonista di un fatto di cronaca nera, qualcuno avrebbe parlato di ‘invasione’, di ‘immigrati cattivi’, di ‘degrado’.
Non esistono immigrati buoni o cattivi. Esistono persone. E Aymane, oggi, ci mette davanti a una verità scomoda: l’eroismo non ha cittadinanza. Ma il pregiudizio sì.”
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