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La Cassazione: “Spiare il telefono dell’ex è reato, anche se serve per la causa di separazione”

Entrare nel telefono dell’ex coniuge senza autorizzazione, anche con l’intento di raccogliere prove da usare in una causa di separazione, costituisce reato. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, che con una recente sentenza ha confermato la condanna inflitta a un uomo accusato di accesso abusivo a sistema informatico, rigettando il suo ricorso e ribadendo un principio giuridico chiaro: la tutela della privacy resta inviolabile, anche all’interno di un conflitto familiare.

La vicenda trae origine da un procedimento giudiziario che ha coinvolto un uomo e la sua ex moglie, al centro di una separazione con forti elementi di tensione. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’uomo avrebbe estratto senza consenso chat WhatsApp, registri di chiamate e altri dati personali da due telefoni appartenenti alla donna – uno dei quali ancora in uso, l’altro un vecchio cellulare legato a precedenti attività lavorative. I dati così acquisiti erano stati poi consegnati all’avvocato difensore, con l’obiettivo di dimostrare presunte infedeltà e ottenere l’addebito della separazione.

Le denunce, presentate dalla donna nel marzo 2022 e marzo 2023, descrivono un clima teso, segnato da comportamenti ossessivi e molesti, culminati anche nell’invio di messaggi privati a terzi (compresi i genitori della donna) per insinuare l’esistenza di una relazione extraconiugale.

La Corte d’appello di Messina aveva già condannato l’uomo, riconoscendo la violazione dell’articolo 615-ter del codice penale, che punisce l’accesso abusivo a sistemi informatici protetti. La Cassazione ha ora confermato quella sentenza, sottolineando che nessuna finalità probatoria può giustificare una condotta lesiva dei diritti fondamentali della persona, tra cui il diritto alla riservatezza dei propri dati digitali.

Si tratta di una decisione che rafforza l’indirizzo giurisprudenziale già emerso in altri casi simili: anche nel contesto di contese familiari, non esiste una “zona franca” che consenta l’uso di strumenti illeciti per ottenere prove, né può essere invocato un presunto “interesse alla verità” che superi la legalità delle modalità con cui le informazioni vengono reperite.

La pena per chi viola il divieto può arrivare fino a dieci anni di reclusione, soprattutto in presenza di aggravanti come la sottrazione di dati personali, la diffusione non autorizzata a terzi, e l’utilizzo a fini di danno.

Questa sentenza lancia un messaggio inequivocabile: anche nei conflitti più aspri, il rispetto della legge non è facoltativo. E il diritto alla privacy, tanto più in un’epoca di comunicazioni digitali, rappresenta un baluardo che neppure una separazione può abbattere.

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