di Pippo Gallelli
C’è un punto oltre il quale il silenzio diventa complicità. E quel punto, nel conflitto israelo-palestinese, è stato superato da tempo. Le ultime notizie provenienti da Gerusalemme e Gaza raccontano di un piano deliberato, approvato all’unanimità dal gabinetto di sicurezza israeliano, per una nuova espansione militare nella Striscia. Ma non si tratta più di incursioni mirate o operazioni temporanee: il progetto è quello di conquistare Gaza, mantenerne il controllo e spostare la popolazione verso sud, creando una zona sterile dove i civili palestinesi saranno ammassati “per la loro protezione”.
Un linguaggio da guerra etnica. Un piano che odora di pulizia demografica e di punizione collettiva. Una linea d’azione che non può più essere giustificata nemmeno da chi, in buona fede, ha sempre difeso il diritto di Israele all’autodifesa. Perché qui non siamo più nel terreno della difesa, ma in quello della vendetta programmata e della dominazione militare permanente. E chi tace – governi, istituzioni, leader europei – si sta rendendo corresponsabile.
Benjamin Netanyahu ha dichiarato esplicitamente che i suoi soldati non entreranno più a Gaza per poi ritirarsi, ma per restarci. Una frase che pesa come un macigno sulla possibilità di qualsiasi soluzione politica del conflitto. E mentre a Gaza piovono bombe, i manifestanti israeliani che chiedono il ritorno degli ostaggi vengono zittiti, dispersi, ignorati. Perfino i vertici dell’IDF, che mettono in guardia sui rischi di perdere gli ostaggi durante un’offensiva totale, sono costretti a rilasciare interviste “tranquillizzanti” alla stampa per contenere il panico crescente.
Nel frattempo, l’Europa balbetta, incapace di articolare una posizione politica netta. Il governo italiano, in particolare, si distingue per un silenzio assordante, come se fosse ormai abituato a voltarsi dall’altra parte ogni volta che la legalità internazionale viene calpestata. Nessuna condanna chiara, nessun appello alla moderazione, nessuna pressione diplomatica. Solo dichiarazioni generiche di solidarietà e formule vuote.
Dov’è finita la coscienza dell’Occidente? È accettabile sostenere a parole una “soluzione dei due Stati” e nei fatti tollerare l’occupazione e la distruzione sistematica di uno di essi? È moralmente difendibile invocare il diritto alla sicurezza di Israele – sacrosanto – e contemporaneamente ignorare il diritto alla sopravvivenza del popolo palestinese?
In mezzo a questo deserto morale, risuonano forti le parole della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e coscienza etica della Repubblica italiana: «Trovo mostruoso il fanatismo teocratico e sanguinario di Hamas […] ma sento anche una profonda repulsione verso il governo di Benjamin Netanyahu e verso la destra estremista, iper-nazionalista e con componenti fascistoidi e razziste al potere oggi in Israele».
Non è un’opinione qualsiasi. È una voce che non può essere ignorata. Una voce che dice ciò che la politica europea ha paura anche solo di sussurrare.
E mentre gli Stati Uniti si apprestano a inviare aiuti umanitari a Gaza, accusando Hamas di dirottarli, e bombardano lo Yemen insieme a Israele, l’Occidente democratico rischia di perdere non solo la propria autorità morale, ma ogni credibilità politica. Non si può predicare democrazia e legalità internazionale, e contemporaneamente sostenere – con armi, fondi e silenzi – un piano che mira a riscrivere con la forza i confini e le regole della convivenza.
Qualcuno fermi Netanyahu prima che l’Occidente perda la faccia per sempre. Lo faccia ora, prima che sia troppo tardi. Prima che Gaza sia ridotta in cenere e l’idea stessa di giustizia internazionale venga sepolta sotto le macerie.