di Gianmaria Radice
Consigliere Comunale del Comune di Milano
Gli accordi di Abramo siglati nel 2020, erano prodromici alla regolarizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele e Arabia Saudita. Questi accordi di libero scambio commerciale hanno portato, alla vigilia del 7 ottobre, il valore dell’interscambio non-oil a circa 3 miliardi di dollari. Per ora l’Arabia Saudita non mette in discussione l’accordo di libero scambio. In realtà la normalizzazione dei rapporti diplomatici fra i due paesi al momento si è fermata. La tragedia del 7 ottobre e la disastrosa gestione della crisi susseguente da parte del Primo Ministro Netanyahu può portare indietro anche lo stato delle relazioni commerciali. I Sauditi continuano a mantenere il controllo sulla Lega Araba e continuano ad impedire che l’esistenza dello Stato di Israele sia messa in discussione. Chiedere due stati è da molti anni l’asse della posizione della Lega Araba. All’interno di Israele la creazione di uno stato di Palestina è visto come un pericolo per la sicurezza, anche se indubbiamente quanto avvenuto il 7 ottobre, testimonia che la mancanza di sicurezza non sia minacciata dalla possibile creazione di uno Stato Palestinese ma, al contrario, dall’assoluta mancanza di uno Stato Palestinese. I Palestinesi altresì negli ultimi decenni hanno rifiutato qualsiasi proposta di pacificazione con Israele che provenisse anche dalla Lega Araba. Oggi la Palestina è composta da due entità territoriali (Cisgiordania e striscia di Gaza) una governata dall’ANP e l’altra controllata da HAMAS. La prima inaffidabile e non trasparente, la seconda animatrice di una lotta che punta alla distruzione di Israele e legata – a filo doppio – all’Iran. Il quadro, quindi, appare abbastanza sconfortante ma, in realtà, le ragioni affinché si giunga alla normalizzazione fra Israele e l’Arabia Saudita sono tante ed assolutamente condivisibili.
Il Prof. Elie Podeh che insegna presso il Dipartimento di Studi Islamici e sul Medio Oriente dell’Università Ebraica di Gerusalemme e membro del Board del Mitvim Institute
le riassume in 5 punti:
- Agevolare il riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi del Medio Oriente e dei paesi mussulmani nel mondo.
- Sferrare un duro colpo per l’IRAN Sciita che non vuole la normalizzazione con Israele, svolgendo un ruolo destabilizzatore nella dinamica del mondo Mussulmano.
- Aumentare le possibilità di cooperazione nella sicurezza regionale gia in parte attiva (vedi il caso dei missili Iraniani su Israele)
- Arrestare la caduta di immagine di Israele agli occhi di tutti quei paesi nel mondo che non ne rinnegano l’esistenza ma che non condividono le sue politiche.
- Rafforzare una nuova architettura economica dell’area che collegherebbe l’estremo oriente e l’India all’Europa con un corridoio marittimo e terrestre che attraverserebbe Arabia Saudita, Giordania e Israele.
L’Arabia Saudita non è solo una grande potenza mondiale, ma è la terra sacra dell’Islam Sunnita. Svolge, cioè, un ruolo fondamentale negli equilibri geopolitici mondiali. Non è terra di diritti, appare agli occhi del mondo come un luogo privo di libertà, però la sua trasformazione – seppur lenta – risulta costante. Ovviamente non possiamo usare il punto di vista occidentale delle democrazie compiute per leggere la trasformazione del mondo mussulmano. L’Arabia Saudita rappresenta una spinta riformatrice che prima d’ora era stata totalmente assente nella sua storia. Israele ha l’occasione di creare un punto di svolta che nasce da una tragedia e da una guerra devastante. Come avvenne, ad esempio, con il caso della guerra arabo-israeliana del 1973, che alla fine portò alla pace con l’Egitto. Israele è obbligata ad accettare il “cessate il fuoco”, anche perché l’ostinazione del suo (quasi assolutista) Primo Ministro non può che acuire il suo isolamento internazionale. Netanyahu ha numerose responsabilità per quello che è avvenuto il 7 ottobre, ed il suo appare ormai solo come un tentativo di mantenere il potere per non rispondere dei suoi tragici errori. Sono ormai 140 le nazioni che nel mondo hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, uno Stato che formalmente non esiste.
Il problema palestinese, di fatto, è uscito dal limbo in cui era finito. Israele deve comprendere che la soluzione richiede la partecipazione di attori internazionali, inclusa – ce lo auguriamo – la EU e gli Arabi, a garanzia per entrambe le parti.
Gli attori internazionali dovranno fornire – se necessario – le forze per il mantenimento della pace a Gaza. Israele deve, in primis, pensare al dopo Gaza. Il tema non è militare, è politico. L’annientamento di Hamas passa solo attraverso l’eliminazione delle radici del conflitto. Servono, ad entrambi, partner regionali ed internazionali, ed in questo l’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo centrale, vista soprattutto la vicinanza geografica. Israele non può rifiutare questa occasione.
Per 40 anni i Palestinesi hanno rifiutato le soluzioni internazionali e soprattutto quelle Arabe. Il Principe ereditario Saudita Mohammed bin Salman, nel 2018 in un incontro a porte chiuse ebbe a dire: “È ora che i palestinesi accettino le proposte e accettino di sedersi al tavolo delle trattative e di stare zitti e smettere di lamentarsi”.
In conclusione il Prof. Elie Podeh riassume con parole precise la situazione per quanto riguarda Israele e il suo futuro:
“Le prospettive di normalizzazione con l’Arabia Saudita dopo gli eventi del 7 ottobre pongono Israele a un bivio. Può continuare a mantenere il suo ruolo storico di vittima perseguitata nel corso della storia fino ai giorni nostri, oppure cogliere l’opportunità come potente nazione indipendente per uscire dal suo ghetto ed entrare nella regione come partner e alleato. Entrambe le decisioni saranno decise dai leader e dalla società israeliana, non da un deus ex machina.”
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