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Il Villaggio, il castello e l’americano. Il Medioevo secondo Capcom

di Pierfrancesco Nestola

Introduzione
Chi, come il sottoscritto, segue da tempo la saga in questione, ha certamente notato un’affezione quasi morbosa a un simbolismo “occidentalizzante”, che caratterizza pressoché tutti i capitoli: la villa in stile europeo di Arklay del primo Resident Evil (RE da ora in poi), nella quale si consumano delitti efferati; la stazione di polizia di Raccoon City di RE2, un ex museo trasformato in centrale, con le sue effigi, i suoi medaglioni e i suoi passaggi segreti; la torre dell’orologio e il carillon da accordare in RE3 e, per finire, l’Europa e i suoi retaggi d’antico regime di RE4 e del più romantico RE8 (Village), ambientato nel luogo principe di ogni rappresentazione di un Medioevo del disagio: la Transilvania.
Partiremo dal quarto capitolo.

1. Lo stereotipo della chiusura
La nostra storia inizia in un punto imprecisato della Spagna, nel villaggio montano di Valdelobos, su un’automobile della polizia che aveva ancora senso nel 2004 (anno del gioco originale, noi ci riferiremo più che altro al remake del 2023) e in presenza di due agenti che sembrano incarnare uno dei clichés più longevi della letteratura mondiale: l’impiegato pubblico scansafatiche.
Non appena ci si immerge nell’avventura, sembra di entrare nelle pagine de I paesaggi della paura di Fumagalli: un piccolo centro rurale coperto da vegetazione selvatica fa da sfondo a un’umanità malata e violenta, dai movimenti trascinati e dagli sguardi febbrili, che abita stamberghe fatiscenti e sporchissime, completamente sottomessa a un culto misterioso.
La domanda che ci si è posta nell’osservare un certo numero di riferimenti al Medioevo è stata la seguente: gli sviluppatori del gioco hanno tenuto conto di letteratura e fonti storiche? Se sì, quali?
In un’analisi preliminare, considerato che stiamo parlando di una casa produttrice nipponica e che chi scrive non conosce neanche i rudimenti del giapponese, ci si è affidati alla letteratura specifica europea.
Il protagonista è Leon S. Kennedy, ex poliziotto belloccio e traumatizzato dagli eventi di qualche anno prima. Leon fuggì infatti dalla famigerata Raccoon city, poco prima che su questa venisse lanciato un ordigno atomico per eliminare gli effetti del virus T, esperimento sfuggito al controllo della perfida Umbrella Corporation, un’azienda biochimica: gli zombies.
Il protagonista incarna, oltre al topos cinematografico (perché ormai, con i videogiochi, di questo si tratta) dell’eroe ombroso e affascinante, anche il progresso che si fa luce fra le tenebre di un angolo d’Europa rimasto bloccato in un passato sordido e che a questo si abbarbica nel seguire il culto di lord Saddler, del quale avremo modo di parlare.
L’intero gioco segna una svolta nella saga, e non solo dal punto di vista tecnico: Raccoon City, città moderna, viene annientata con armi moderne per purificare il mondo da una piaga moderna. Il Medioevo post-apocalittico, con la distruzione di ogni ordine sociale e delle regole del vivere civile, non c’è più. La peste, dal quarto capitolo, si riprende il suo mondo di riferimento originale: l’antico regime.
Leon, dopo i fatti di Raccoon City, è stato sottoposto a un addestramento da super soldato ed è stato mandato in quell’area isolata della Spagna per salvare la figlia del Presidente degli Stati Uniti, rapita da una setta con l’ovvio obiettivo di un riscatto.
Dopo aver fatto la sgradita conoscenza dei primi abitanti del posto, Leon si ritrova ben presto davanti alla scena madre di ogni rappresentazione di un Medioevo buio: il rogo, dopo il quale c’è l’inevitabile combattimento contro la popolazione intera del borgo che, armata di forconi, coltellacci e motosega, cerca di uccidere il nostro personaggio.
Leon si destreggia come può, saltando sui tetti e passando per le stalle, finché non suona la campana e tutti vanno via, perché devono andare a servire lord Saddler (il capo della setta) “todo poderoso”.
Battuta a stelle e strisce di Leon: “dove stanno andando tutti, al Bingo?”
Americanate a parte, siamo davanti a una versione videoludica della famiglia Hellequin, la demoniaca famiglia (da cui deriva il nome di Arlecchino) raccontata da Orderico Vitale già nel XII secolo, rappresentata come un’orda di morti viventi contadina completa del gigante armato di clava, che si scatena in una “caccia selvaggia” al povero americano, spirito semplice, pratico e devoto alla sua religione. È, in effetti, una specie di purgatorio itinerante per il povero Leon, combattuto tra la missione e le grazie, puntualmente procrastinate, dell’avvenente Ada Wong.
Il gigante verrà poi ucciso da Leon a colpi di pistola e fucile e con l’aiuto di un lupo liberato poco prima da una tagliola, vicino alla casa del capovillaggio (vestito da prete cattolico del Seicento con tutti i capi in pelle e cuoio): lo statunitense sopprime empaticamente ogni connotazione negativa della bestia per antonomasia, dall’antichità all’età moderna, fino a ridurla a mero aiutante, dopo averla liberata dalle nefande trappole del Medioevo oscuro che uccide i lupacchiotti.
Ma, come ci insegnano Sergi e Violante, il Medioevo si costruisce per via negativa, sin dal primo giorno della sua invenzione. E chi siamo noi per invertire la tendenza?
D’altra parte, gli autori del gioco hanno avuto mano libera a inserire ogni sorta di elemento riferito a un passato “gotico”, se così vogliamo definirlo: esiste una specie di prequel del gioco, un film in CGI chiamato Incubate, che spiega la vita prima e dopo lord Saddler nel paesino di Valdelobos. Si tratta di una comunità montana chiusa, che conserva credenze e riti propri dell’età preindustriale; quindi, bersaglio ghiotto per chi vuole creare la propria chiesa, inoculando nei contadini arretrati e malnutriti Las Plagas, dei parassiti estratti da alveari preistorici trovati nel sottosuolo, che li rendono iper-resistenti ai traumi fisici, ma anche simili a zombies.
In effetti, almeno per quel che riguarda il quarto capitolo, non sappiamo quanto sia giusto parlare di Medioevo: la parola non esce praticamente mai, né dalla bocca di Leon, né da quella degli altri personaggi. Semmai, ci sono delle interessanti citazioni del Don Quijote di Cervantes, in spagnolo, quando si incontra il controverso Luis Sera, un personaggio non giocabile. Tuttavia, non si può ignorare nemmeno che entrambi i capitoli si concludono in ambientazioni per così dire “industriali”, il che può essere benissimo un caso, ma anche l’epilogo ideale, oltre il quale c’è sempre e solo la Liberazione americana, che venga da Leon e dal Presidente, o da Chris Redfield e dalla sua agenzia paramilitare contro le armi biologiche.
Un articolo del Manifesto a firma di Federico Ercole e Andrea Lanza titola così: “Resident Evil 4, un nuovo Medioevo”. Sebbene in tutto l’articolo non ci sia un solo riferimento ai secoli dell’età di Mezzo, le argomentazioni sono ineccepibili: la denuncia alle storture contemporanee; il ragionamento sulla memoria storica del giocatore, che si ritrova a godere di un titolo vecchio di 20 anni tirato a nuovo e in grado di donare al giocatore (invecchiato insieme al gioco) gustosissimi dejà-vu, facendo il lifting a dei mostri che lo riportano a un’età spensierata, testimoni del fatto che i mostri esistono perché c’è l’eroe che li elimina, e non il contrario. Una nostalgia nascosta dietro lo stesso “trucco e parrucco” di lord Salazar, nel castello di cui inizieremo ora a parlare.

2. Il castello come contenitore
Il castello di RE4 è un’enorme struttura arroccata sul punto più alto dell’area, sopra un lago di probabile origine vulcanica, abitato da un’enorme creatura simile a una salamandra.
L’intera parte ambientata nel maniero si svolge di notte e si arricchisce di tutta una serie di elementi che non sarebbero possibili neanche nella cinematografia più spinta, per il rischio di far scadere il prodotto nella fascia più bassa immaginabile.
Lugubri monaci armati di balestre e catapulte dai proietti infuocati, mazze e scudi e altre armi da mischia; giganti da abbattere a cannonate prima che vi tirino dietro ogni pietra del castello; parassiti disgustosi che si muovono in autonomia o infestando monaci, cani e anche armature cinquecentesche sono la fauna che ci troveremo ad affrontare.
Altro discorso vale per le ambientazioni: si passa dai camminamenti di ronda e dai torrioni esterni, agli ambienti interni forniti di mobilia e suppellettili raffinatissime, nonché di straordinari rompicapi rappresentati sotto forma di bassorilievi, insegne e sistemi di apertura e chiusura a leva per porte e passaggi. Si arriva negli immancabili sotterranei colmi di vergini di Norimberga in disuso e di creature mostruose, per giungere alle ambientazioni da Reggia di Caserta, decorate di stucchi, dipinti e biblioteche.
È come se il castello fosse il contenitore unico, nel suo involucro tetro e mastodontico, di tutti i luoghi comuni di antico regime, e dunque del feudalesimo e del Medioevo: lo sfarzo e la pulizia dei pavimenti tirati a lucido dei saloni contrapposti agli ambienti miseri e lerci del villaggio appena lasciato; la completa assenza dei contadini infetti, esclusi dagli ambienti protetti del potere, contro la massiccia presenza di clero (i monaci armati) e nobiltà (Salazar e i suoi deformi accoliti), unici a godere degli agi di un’abitazione di pregio. L’intera fortezza si configura come una labirintica scatola cinese, a tratti claustrofobica, a tratti magnifica, che ospita gli ambienti e le architetture più svariati. Il giocatore fa un tour completo dei secoli che vanno dal XIV al XVIII, in un’inversione di paradigma del castello disneyano: le attrazioni sono infatti sostituite da sfide mortali; gli indovinelli da enigmi ansiogeni; i personaggi da mostri che vanno dall’inquietante al disgustoso; la meraviglia dal senso di terrore.
Nei parchi a tema Disney, così come nei film di animazione, c’è l’immancabile, onnipresente castello, per costruire il quale l’azienda si è sempre affidata a “esperti di castelli”. Chi scrive deve penosamente confessare di non essere riuscito a trovare nulla sulla figura di “esperto di castelli”, ma non crede che si tratti di figure professionali equiparabili a Licinio o Toubert: deve trattarsi di architetti che hanno studiato a fondo le ricostruzioni romantiche ottocentesche di alcuni castelli europei e, difatti, l’archetipo al quale questi esperti si richiamano non è certamente il castello di Levizzano Rangone, ma quello di Neuschwanstein, costruzione ottocentesca di chiaro stampo romantico, che ha funto da modello per le ricostruzioni fantastiche successive. La ricostruzione fantastica di RE4 ne muta solo la funzione, mantenendo intatta l’immaterialità di fondo del costrutto.
Nei titoli di coda del videogioco non c’è nessuna figura che possa far pensare a un esperto di castelli, o a un architetto, men che meno a un consulente storico, se non un insieme di persone che lavorano alla sfera artistica o all’individuazione e alla resa grafica del sito geografico e architettonico. Sono quasi tutti giapponesi. I nomi occidentali si contano sulle dita di una mano, se non consideriamo i doppiaggi: una spagnola tra gli sviluppatori della location di RE4 e qualche nome europeo qua e là.
Partendo dall’assunto per cui qualche cognizione di Medioevo è sicuramente presente, gli elementi per un’analisi si mescolano confusamente e bisognerà per forza considerare le fasi di gioco, per giungere a qualche spunto di riflessione.
Lo scontro finale con l’antico regime si ha con il duello tra Leon e Salazar, il quale, dopo aver insultato diverse volte l’eroe (“non sei per niente un buon cavaliere” – un altro stereotipo – gli dice ad esempio, in una delle numerose occasioni in cui Leon perde Ashley, la figlia del presidente), quasi a sottolinearne l’alterità, si becca due pallottole con un americanissimo “you talk too much”: l’eroico uomo d’azione cancella un passato logorroico e talmente corrotto da farsi cavia per l’esperimento di Saddler, non potendo vivere in nessun’altra epoca che in un “altrove negativo” rappresentato da una pestilenza perenne; un microcosmo asservito a un monarca assoluto che impone il suo volere controllando i parassiti inoculati ai popolani ignari, spacciandolo come “dono”, e ai suoi accoliti, che ne condividono il potere trasformandosi in creature abominevoli e potentissime grazie allo stesso parassita, del quale si trovano testimonianze fin nelle tracce di civiltà rupestre presenti nelle grotte sotto al castello.
Una Danza macabra interattiva, quindi, spezzata da Leon, il quale è stato scelto dal Presidente in persona per le sue “alte doti fisiche e di volontà”.
L’avventura termina su una specie di piattaforma petrolifera dove si consuma l’ultimo scontro, prima della fuga su di uno scooter d’acqua, portando con sé la figlia del Presidente salvata dalla barbarie.

3. L’Europa e l’antico regime. Scelta di un Continente per la rivisitazione orrorifica del passato.
Quasi sovrapponibile è la trama dell’ottavo capitolo della saga, Village, nella quale si vede l’eroe che deve ancora una volta affrontare orde di esseri mutati da un parassita, in un villaggio montano isolato, stavolta in Romania.
L’avventura si apre con un piccolo gioiellino metaletterario: una fiaba animata in perfetto stile Tim Burton (non a caso), completamente inventata, che anticipa la trama del gioco.
Gli elementi della fiaba ci sono proprio tutti, e per fiaba si intende quella antica, piena di situazioni oscure e macabre: la protagonista, una bambina, gioca serena. Incurante del divieto della madre, rompe l’equilibrio e si allontana nella foresta. Ha paura, ma incontra tre aiutanti (un pipistrello che le dona del nettare, un ragno che le tesse un vestito di seta, un pesce che le dona una scaglia) e un trickster, un cavallo con un ingranaggio sulla fronte. La bimba gli prende l’ingranaggio, compiendo la cosiddetta infrazione, e il trickster la consegna all’antagonista, Madre Miranda. Ma ecco il co-protagonista entrare in scena: è il padre-eroe che alla fine accetta la lotta e si sacrifica, permettendo alla figlia di salvarsi insieme alla madre.
Ethan Winters, reduce dal precedente, orripilante settimo episodio ambientato in Louisiana, torna in questa avventura dalle fortissime tinte neogotiche per salvare sua figlia, rapita dalla setta di turno, perché in possesso di poteri straordinari.
Come recita il titolo, l’avventura si svolge in un villaggio rumeno sperduto tra i monti, isolato come Valdelobos, governato da una struttura di potere matriarcale che richiama vagamente un sistema feudale: la signora Madre Miranda, alata come un Serafino greco e provvista di un’aureola rigida, e i suoi quattro baroni (dei quali citeremo solo Alcina Dimitrescu, giunonica vampira di due metri e mezzo vestita in stile Belle Époque) controllano il villaggio con il terrore. Sono infatti esseri mutanti loro stessi, grazie al “cadou”, il “dono” del parassita megamiceto, e capeggiano legioni di licantropi, vampiri e altre creature del genere, grazie alle quali tengono la popolazione in un costante stato di atterrimento e asservimento. È l’estremizzazione della sperequazione sociale iniziata nel quarto capitolo: ai popolani non è neanche concesso il “dono”; devono difendersi a fucilate da orde di licantropi che li usano come dispensa vivente, pur pregando tutti insieme Madre Miranda nell’unica casa sicura del villaggio, dove si rifugiano quando escono i mostri.
I cinque “signori”, all’inizio del gioco, si contendono la sorte di Ethan, sprofondandolo infine nelle viscere del castello, dove si compie la rituale “caccia selvaggia” da parte dei licantropi.
Nuovamente, in tutto il gioco troviamo ambientazioni medievaleggianti, anche se meno fantasiose, e ancora una volta non troviamo un solo nome tra i titoli di coda che non provenga dal Sol Levante, tranne il supervisore del sartiame, che è rumeno.
Nell’ottavo episodio, il dipartimento artistico ha realizzato dei castelli e delle fortezze molto meno “romantici” di quelli visti nel quarto capitolo: gli interni del castello Dimitrescu, ad esempio, per quanto ormai ristrutturati in un pesantissimo stile barocco buio e ridondante, sono molto più piccoli e soprattutto sono ripartiti in maniera logica e coerente con gli esterni.
Le rovine della fortezza, tana dei lupi mannari, sono sufficientemente verosimili, così come gli esterni del castello, infestati di creature alate simili a gargoyles in carne e ossa. Le case del villaggio, pur spoglie e semi dirute, non sono coperte di escrementi e lerciume e non vi si trovano resti di cibarie tossiche, come in quelle di Valdelobos, tripudio di ribrezzo che richiama a gran voce le fonti narrate da Camporesi.
Nell’ottavo capitolo, inoltre, si ha una menzione del Medioevo direttamente dalla bocca del protagonista, e la cosa accade in una cornice ancora una volta molto più accurata rispetto all’ambientazione di RE4. Dopo aver sconfitto Alcina, Ethan incontra una vecchia strega nella cappella sotterranea del castello, tutta adorna di icone della madonna in stile bizantino e candele di sego. È qui che l’americano proferisce “medieval bullshit”, la classica espressione d’oltreoceano, con la quale spesso non ci si riferisce al periodo storico in sé, quanto a tutto ciò che di irrazionale e stupido proviene da un passato andato, lontano, obsoleto e ovviamente superstizioso. Possibilmente, è l’estremizzazione della stereotipizzazione del Medioevo: un’espressione, “medieval bullshit” che può essere applicata praticamente a tutto, senza perdere la sua efficacia rappresentativa e mantenendo la sua autorevolezza proprio nel menzionare quell’aggettivo, “medieval”, che è diventato ormai il contenitore di ogni stupidaggine possibile. Tutto ciò che è da cassare, da rimodernare, da ristrutturare o addirittura da radere al suolo proviene dal Medioevo. Un Medioevo che è rimasto stigmatizzato in una cultura che ha avuto sì il suo, ma l’ha chiamato in un altro modo.

Qualche conclusione: l’incastellamento possibile. Riutilizzi di fortificazioni preesistenti in Metal Gear Solid V.
C’è un altro videogioco, che nulla ha a che vedere con l’Età di mezzo, nel quale compaiono antiche fortificazioni riutilizzate in tempi recenti.
Inquadrato nel 1984, all’indomani del dispiegamento sovietico della Quarantesima armata nel conflitto afghano, Metal Gear Solid V: the Phantom Pain narra delle imprese di Venom Snake, super soldato a capo di una compagnia militare privata, mercenario per il miglior offerente. Le varie missioni si snodano nel buio delle operazioni segrete della Guerra fredda, svolte da varie agenzie talmente diverse e camuffate, da poter certamente contemplare i nostri Diamond Dogs.
Sulla trama dei vari capitoli di Metal Gear Solid (MGS da ora in poi) ci sarebbero da organizzare seminari e da scrivere opere a volumi e tuttavia, di Medioevo c’è veramente poco: in ognuno dei capitoli, al massimo, abbiamo un eroe tormentato che alla fine deve sconfiggere da solo un mostro meccanico, simbolo di un potere occulto. Cercare analogie e assonanze con l’idea di Medioevo potrebbe sembrare quasi una forzatura, ma è altro quello che ci interessa.
Hideo Kojima, ideatore e creatore della saga per Konami, ha sempre inserito la storia con la S maiuscola nelle sue opere, anche a costo di manipolarla, come nel caso di Metal Gear Solid 3: Snake eater. Nel titolo, la crisi dei missili di Cuba non si risolve grazie allo smantellamento delle testate Jupiter in Turchia e Italia (major Zero dichiarerà a Naked Snake – l’agente incaricato della “missione virtuosa” nel Tajikistan – che erano comunque da smantellare, in quanto obsolete), ma perché gli Stati Uniti hanno riconsegnato all’Unione sovietica Nikolai Stepanovich Sokolov, scienziato che aveva defezionato due anni prima, fuggendo nella Berlino Ovest con l’aiuto della CIA. Sokolov è infatti a capo di un progetto segreto per un carro armato sperimentale, lo Shagohod, capace di lanciare, da qualsiasi parte del globo, testate nucleari con un cannone a rotaia, aggirando così diversi trattati internazionali.
Non meraviglierà dunque che in MGSV, per l’OKB Zero (Opytnoye Konstruktorskoye Buro Zero – Ufficio progetti segreti Zero), base in cui viene sviluppato ancora una volta un carro armato bipede con cannone a rotaia- il Sahelantropus, si sia scelto un sito esistente e riutilizzato così come aveva fatto l’Armata rossa nel 1984. La cittadella fortificata di Herat.
Risalente addirittura ad Alessandro Magno, la struttura ha subìto diverse ristrutturazioni nei secoli, a seconda della dominazione. Gli ultimi interventi di rifacimento sono datati 1970 e 2011.
La natura stealth del videogioco permette di indugiare davanti ai particolari e c’è da dire che la ricostruzione della fortezza così com’era prima del restauro del 2011 è impressionante: ci sono addirittura i resti di piastrelle blu osservati da Robert Byron. Quello che colpisce di più è tuttavia il metodo osservato nel riprodurre le fortificazioni moderne, inserite nelle strutture antiche.
C’è un eliporto nella parte più alta della fortezza, per accedere alla quale bisogna attraversare diverse aree enormi che non sono piene zeppe di nemici: vedono invece soldati diversamente equipaggiati, dislocati nei punti strategici, a seconda della loro funzione. Mitragliatrici pesanti, mortai e cannoni da contraerea disposti ad arte, cecchini, sistemi di comunicazione, sirene e megafoni per l’allarme e infine l’IA dei soldati nemici rendono bene l’idea di cosa significhi infiltrarsi in una roccaforte nemica in solitudine.
Una ricostruzione accurata, anche se non maniacale come quella di Kojima, non è solo auspicabile, ma anche possibile in un prodotto che ha venduto più di sette milioni di copie.
Nei due capitoli di Resident Evil presi in considerazione, i riferimenti alla letteratura storica (se non direttamente alle fonti) del Medioevo sono troppi, per essere considerati semplici coincidenze o fortunati espedienti narrativi. Se non c’è stato uno studio specialistico, gli sviluppatori dovevano avere quantomeno un’infarinatura della materia. Devono per di più essersela procurata di proposito, ma il dubbio è che si tratti di contenuti acquisiti in modo mirato, buoni per creare rappresentazioni scenicamente efficaci, ma buttati lì alla rinfusa e adoperati per rafforzare stereotipi commercializzabili e di largo consumo, anche e soprattutto dopo la svolta del quarto capitolo.
Lo spazio per l’immaginazione è vasto: relegarlo alle solite, poche cose uccide l’originalità di un’opera. E pure i poveri castelli, che ormai non possono più farci nulla di male.