Cultura

Le Lame da Barba hanno trovato la loro etimologia sonora

Radici Music ha pubblicato Qafiz, il nuovo album delle Lame da Barba. Il quartetto, artefice di un ammaliante Mediterranean Jazz, è arrivato al terzo disco sulla scia di un lavoro tra parola e musica, etimologia e suono: la ricerca sui rapporti tra arabo e siciliano accompagna il percorso tra jazz e folk.

Con Qafiz prendete per mano l’ascoltatore e lo portate in viaggio per il Mediterraneo. Cosa rappresenta il Mare Nostrum per voi?
Ho sempre immaginato il Mar Mediterraneo come un grande ponte tra le mille culture che lo popolano: tra una sponda e l’altra è possibile vivere tanta diversità e bellezza, quindi il mare non rappresenta più un confine che separa ma che unisce. E questo lo si può anche notare attraverso le tradizioni culinarie, che sfumano tra un posto ed un altro anche se di mezzo troviamo il mare. Questo pensiero lo feci quando andai in nord Africa: notai subito alcune similitudini con la mia Sicilia, come per esempio nell’utilizzo del miele e delle mandorle nei dolci o in un piatto come il cous cous.

Che significato ha il termine Qafiz?
U Cafisu è l’unità di misura utilizzata in Sicilia per l’olio d’oliva. Si tratta di una piccola giara in latta che riempita rappresenta un cafiso di olio. Ovviamente da paese a paese questa unità di misura cambia lievemente, anche se il nome rimane uguale.
E Qafiz è proprio l’etimologia araba di questa parola che per secoli si è mantenuta arrivando fino a noi.

Dall’arabo al siciliano, dal jazz al folk. Parlateci di tutta la ricchezza che avete voluto per il vostro nuovo lavoro.
Questo album è un tuffo profondo nella ricerca di un nostro suono, un modo di comporre. Abbiamo voluto scavare lungo le nostre radici per trovare la ‘nostra etimologia’ sonora.
Questo album presenta dunque molti spunti sonori: ad esempio Zahara ha una matrice che ricorda un po’ l’Africa, Acubar ci porta direttamente in Spagna. Questo accade anche un po’ in Saja anche se questa composizione è ritmicamente più legata al nostro sud Italia. A caratteri generali è complesso etichettare i brani: sono uno la sfumatura dell’altro.


Cosa caratterizza questo vostro terzo album rispetto agli altri?
Prima di tutto c’è un approccio improvvisativo che ovviamente è molto più visibile nei live. Vogliamo respirare l’idea che i brani siano delle finestre che rimangono sempre aperte, in modo da poterci portare in altri luoghi, a volte anche imprevedibili. Come idea di fondo c’è la continua trasformazione del materiale sonoro, proprio come accade anche per il linguaggio parlato. Per questo ho deciso di creare questo trait d’union tra linguaggio parlato e linguaggio musicale, dedicando questo concept album proprio a questa profonda connessione.

Da sempre usate le varie lingue come suoni, come musica. Come vi approcciate a tutta questa moltitudine? Come riuscite a “studiarle“ tutte?
Nel mio caso sono sentori… delle spezie che insaporiscono il suono. Poi ciascuno di noi ha un trascorso musicale differente ed è la libertà di ognuno di noi che porta al progetto una testimonianza, un apporto e una visione differente.

Quanto sono importanti il linguaggio e le parole antiche per noi? Cosa possono comunicarci ancora oggi e come possono aiutarci in un mondo spesso così superficiale?
Ci comunicano come in realtà siamo tutti connessi l’uno con l’altro e che l’idea di confine sia un concetto che ci hanno insegnato… imposto, ma che in realtà non esiste. Pensa che non c’è riuscito nemmeno il mare! A me personalmente quando ascolto un termine anche comune di chiara provenienza ‘lontana’ mi vien voglia di viaggiare, quindi credo che le parole possano comunicarci l’idea del viaggio. Viaggiare è estremamente importante, perché si cambia punto di vista, si abbattono i pregiudizi. Non solo verso una cultura lontana, ma anche verso noi stessi, per esempio rispetto a come gli altri ci vedono e ci percepiscono.