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La Resistenza e la famiglia Cervi: 80 anni di memoria. Li racconta Adelmo Cervi

Gli anniversari possono essere occasione di celebrazioni ipocrite e infarcite di retorica, oppure possono assumere i toni di una rievocazione grata, sentita e sincera, che non si limita a ricordare, ma che diventa memoria; negare i valori della Resistenza e ridimensionarne la portata è una pericolosa tendenza fomentata dall’ignoranza

L’armistizio dell’8 settembre del 1943 lascia l’Italia allo sbando: abbandonata a se stessa dal suo sovrano che, insieme a Badoglio, si dà alla fuga ignominiosa verso Brindisi, prostrata, economicamente e moralmente, da vent’anni di scellerata dittatura, devastata da più di tre anni di guerra. In ginocchio, ma con un anelito alla libertà mai sopito, all’indomani dell’Armistizio, una pluralità di forze diverse, ma accomunate dagli ideali antifascisti (comunisti, azionisti, socialisti, democristiani, liberali, repubblicani, anarchici), si organizza per dar vita alla Resistenza che, attraverso la lotta partigiana, porterà l’Italia alla liberazione dal dominio nazifascista.

Innumerevoli i nomi degni di memoria, molteplici le storie di partigiani e partigiane, che non hanno mai esitato ad anteporre il bene comune e i valori democratici all’incolumità personale. Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario dell’inizio della Resistenza. Gli anniversari possono essere occasione di celebrazioni ipocrite e infarcite di retorica, oppure possono assumere i toni di una rievocazione grata, sentita e sincera, che non si limita a ricordare, ma che diventa memoria, che, insieme alla conoscenza, costituisce un potente antidoto contro la seduzione revisionista e negazionista.

Il regime nazifascista ha disseminato stragi e distruzione, rappresaglie e atti terroristici: una pletora di vittime inermi e innocenti, la più giovane delle quali, Anna Pardini, trucidata a Sant’Anna di Stazzema, aveva solo pochi giorni di vita.

Un’altra ricorrenza fondamentale di quest’anno è l’eccidio dei fratelli Cervi e di Quarto Camurri. All’alba del 28 dicembre del 1943, al poligono di tiro di Reggio Emilia, si consuma, per mano fascista, il vile massacro di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi insieme a Quarto Camurri. Da quel momento i sette fratelli Cervi abbandonano la vita terrena per assurgere a mito, diventano un’entità unica, indivisibile, una sorta di monolite. Ne celebrano le gesta i libri, il cinema, la musica: li racconta papà Alcide e li racconta Adelmo, figlio di Aldo.


Quell’Adelmo che aveva solo quattro mesi quando il padre morì e che, nel 2014, sente la necessità di scrivere Io che conosco il tuo cuore, rieditato all’inizio di quest’anno con il titolo di I miei sette padri storia di un padre partigiano raccontata da un figlio. Un padre spogliato di quell’aura di leggenda e visto nella sua umanità più profonda e vera. E i fratelli Cervi da blocco monolitico tornano a essere individui, diversi per indole, carattere, attitudini, ma accomunati dai medesimi ideali: la libertà, la giustizia, l’equità sociale, il desiderio di progresso. Una famiglia sui generis, coraggiosa, insofferente del giogo della mezzadria, che è schiavitù e sfruttamento; da sempre in prima linea in nome dei diritti sacrosanti dell’essere umano; con un amore profondo per la cultura, quella vera non data dai titoli accademici, ma generata dalla passione, dalla fame di conoscenza.

Non è un caso che l’etimologia della parola cultura derivi da colere, coltivare, quindi rimandi a quel mondo contadino di cui i Cervi facevano parte. Adelmo riporta in vita quel padre, di cui troppo presto era stato privato, e il suo sogno di cambiare il mondo, un sogno condiviso con i fratelli, che costerà loro la vita.

La Resistenza per la famiglia Cervi comincia molto prima del 1943: tutta la loro esistenza è improntata alla lotta. Lotta a favore della dignità, contro l’ignoranza, la dittatura, i soprusi, le disuguaglianze. Combattono il Fascismo con tutte le armi a loro disposizione. Casa Cervi è sempre aperta all’ospitalità e non nega mai accoglienza, un pasto caldo e panni puliti a persone invise al regime.
Proprio questa generosità sarà loro fatale e orberà, in una manciata di minuti, due genitori di sette figli, undici figli dei loro padri, due sorelle dei loro fratelli, quattro donne dei loro compagni.

I miei sette padri è diventato anche un film documentario, diretto da Liviana Davì, presentato in anteprima il 26 marzo, anniversario della morte di papà Alcide, a Casa Cervi e che nei prossimi giorni sarà in giro per l’Italia per ribadire con forza e coraggio quegli ideali antifascisti, che sono, tra l’altro, anche alla base della nostra Costituzione.

Negare i valori della Resistenza e ridimensionarne la portata è una pericolosa tendenza che oggi, fomentata dall’ignoranza della storia, sta tornando in auge. Come sempre i grandi uomini di cultura possiedono le risposte e il pensiero espresso da Italo Calvino val più di mille polemiche: “Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”.