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FLO.RE. Festival 2025 dove l’albero diventa lente attraverso cui ripensare il rapporto tra arte, ambiente, collettività e futuro

Il Festival FLO.RE dal 25 giugno al 14 luglio torna a Firenze per la sua XI edizione animando la città e l’area metropolitana con un programma ricco e diffuso, intitolato quest’anno Arbore Amica.
Al centro della proposta, la figura dell’albero come simbolo vivo, potente e mutevole: radice e memoria, resistenza e cura, organismo e paesaggio. L’albero diventa lente attraverso cui ripensare il rapporto tra arte, ambiente, collettività e futuro.
Sedici concerti, tre talk tematici, quattordici masterclass di perfezionamento, tredici laboratori per l’infanzia, tre guide all’ascolto, mostre, passeggiate guidate, eventi formativi e installazioni: il FLO.RE . Festival è una rete di eventi che collega musica colta, creatività contemporanea e sostenibilità in uno dei territori più simbolici della cultura europea.
Approfondiamo il discorso con Gregorio Nardi, Direttore artistico del Festival.

ll tema di quest’anno è “Arbore Amica”. Come nasce l’idea di porre l’albero al centro del Festival?
Per quanto la natura possa sembrare un argomento vitale per tutti, sempre più mi sono accorto di una crescente ignoranza a questo riguardo. Le persone si riposano in campagna, guardano documentari, esclamano la loro ammirazione per la bellezza delle foreste. Ma appena il vento fa cadere un ramo, e si accorgono di non poter addomesticare più di tanto il verde, perché è bello ma porta con sé un’infinità di incognite, e in autunno le foglie vanno spazzate, e gli aghi del cedro cadono sul tetto del vicino, e la mimosa copre le finestre che danno sul giardino, e dietro ai cipressi c’è più umidità, allora si scatena una sorta di isteria: quel salottino di sogno fatto di fiori e di frescura si rivela un’illusione. E siccome la natura non può essere domata, tagliamo gli alberi, scapitozziamo con furore, sostituiamo i giganti annosi con arboscelli più facili da governare. La barbarie antropocentrica che ha portato all’estinzione migliaia di specie animali, si sta ora sfogando proprio sugli alberi che ci sono più vicini. Ecco: il desiderio è stato di portare l’attenzione non solo sulla foresta amazzonica, o quella del Mekong, o quella del Gran Chaco, ma sul verde che ci circonda, o che dovrebbe circondarci. E sulla ricchezza di significati che può avere per noi.

Qual è la sfida maggiore nel coniugare musica colta, sostenibilità ambientale e inclusione culturale in un unico programma?
La sfida è già ampiamente vinta dai compositori e dai poeti che se ne sono occupati nei secoli. In passato il verde non era un valore, o un’opportunità, o una risorsa. Il verde era il verde: il nostro grande vicino, col quale convivere. Lo si ammirava e lo si temeva. Lo si sfruttava, certo, e perciò lo si rispettava. Ha presente le tribù di cacciatori che chiedono perdono all’orso quando sono costrette a ucciderlo? Fino a metà del secolo scorso le persone entravano in un bosco con quella stessa attitudine: io sono un estraneo, ti prego di accogliermi. È la sensazione che si ascolta nella musica ispirata alla foresta: il dolce stormire delle vastità, ma anche il terrore dell’ignoto; la fragilità del sottobosco, ma anche l’oscurità, il timore di perdersi; il silenzio, ma anche il rumore improvviso; la più profonda solitudine, ma anche il varco che introduce alle Divinità. Ogni popolo lo ha espresso nel modo confacente; e ogni popolo ha avuto la propria musica per esprimerlo: anche con la musica classica, che è il campo specifico di questo Festival. Quanti sanno riconoscere alberi comuni come un olmo o un acero? Forse, dandogli voce, le persone li conosceranno meglio. Una voce fatta di musica, perché gli alberi sono musica.

Il FLORE Festival si snoda in spazi non convenzionali. In che modo il luogo trasforma l’esperienza dell’ascolto musicale?
Una buona sala di concerto ha il vantaggio dell’acustica favorevole, dei posti a sedere comodi, dell’aria condizionata in estate e del riscaldamento in inverno. Purtroppo è soprattutto il luogo della routine, dei musicisti vestiti sempre allo stesso modo, che s’inchinano secondo le consuetudini, e propongono programmi adeguati al multiforme pubblico degli abbonati. Il più delle volte, insomma – e con tutte le eccezioni (prevedibili anch’esse) – è il posto adatto per non essere sorpresi. I cortili, i chiostri, gli atrii delle chiese, i corridoi dei musei: qui il musicista è chiamato a escogitare delle strategie. Non starà nascosto nel suo camerino, non potrà scappare alla fine del concerto. Lo stesso vale per il pubblico, che sarà distratto dalla luce che cambia, o sentirà qualche rumore lontano. Non sono luoghi neutri, e cambiano la prospettiva del nostro ascolto. Un po’ come rileggere Leopardi nella propria camera, o in un parco dove giocano i bambini, o su un colle, dinanzi a una siepe.

Crede che oggi l’arte abbia ancora il potere di cambiare il nostro rapporto con la Terra?
Qui dovrei dare una risposta piena di speranza, ma temo di non esserne così sicuro. È un po’ come chiedersi se recitando Mallarmé possiamo cambiare il mondo; o praticando il Kendo, l’arte marziale giapponese della spada. Piuttosto, possiamo cambiare noi stessi: l’artista può farsi esempio di comportamento, di tenacia nel perseguire un ideale. E mentre diviene sempre più consapevole della strada che ha intrapreso – nel nostro caso: il rapporto essenziale fra musica e natura, fra l’uomo e la natura – il suo pubblico si porrà delle domande, non resterà insensibile. In fondo questo potrebbe effettivamente cambiare qualcosa. È ovvio che sto parlando di artisti veri, non di figurine nelle mani del puparo, del management internazionale capace di muovere più il denaro che le idee. In questo senso ripongo qualche speranza nel grande cinema, e forse nelle pop star, forme d’arte nate per comunicare con immense folle, e che possono mediare fra interessi economici e qualità artistica. Dovrebbero influenzare nuovi modi di comportamento.
Un quartetto d’archi, però… le pare? Non è uno spettacolo: è un colloquio fra intimi, un filo visionario seppure rigoroso. O meglio: è uno spettacolo di poesia, appena sussurrata. Mormorata per chi ha l’udito fine.

Quale messaggio desidera che il pubblico porti con sé dopo aver vissuto il Festival?
Vorrei che chi ascolta potesse arricchire il proprio punto di vista. Una persona dice “albero” per tutta la vita. E cosa ha in mente? La sua piccola, angusta esperienza. Crede che tutti vedano l’albero come lo vede lui. Ma tantissimi artisti hanno visto e descritto l’albero in maniere diverse. E la loro esperienza diviene la nostra. Eppure può succedere che si resti comunque abbarbicati alle proprie abitudini. Magari si ride ascoltando l’esperienza di Sibelius, finlandese; o di Szymanowski, polacco; o di Yamada, giapponese; o di Poulenc, francese. Potranno sembrarci esageratamente drammatici o, al contrario, superficiali. Si dirà “ecco, i francesi son tutti così”, o i polacchi o i giapponesi. Poi guarderemo gli alberi che crescono in qualche paese lontano, e commenteremo: che strani posti, non hanno anche loro ulivi e cipressi? Luoghi comuni, ci ostiniamo a non voler capire. Vorrei allora che cadessero i pregiudizi, e che potessimo vedere le cose anche con gli occhi delle altre persone e, soprattutto, delle altre culture. E imparare che anche noi siamo un’altra cultura.