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Gaza: una madre, 9 figli massacrati. È ora che il mondo dica basta!

di Pippo Gallelli

Alaa al-Najjar è una dottoressa. Lavora all’ospedale “Nasser” di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Ha trentotto anni, una carriera passata tra corsie affollate e sangue di innocenti, vittime di un conflitto che sembra non voler finire mai. Ma venerdì scorso la vita di Alaa si è fermata. Perché quei bambini che ha visto arrivare in ambulanza, straziati da un raid israeliano, non erano “solo” altri piccoli pazienti. Erano i suoi figli.

Otto dei suoi dieci figli, dai tre ai dodici anni, sono stati portati in ospedale. Otto corpi martoriati. Il marito, Hamdi, anche lui medico, era gravemente ferito. Gli altri due figli, di appena sette mesi e due anni, sono rimasti sotto le macerie della casa colpita: uccisi sul colpo. Dei bambini ricoverati, solo uno, di undici anni, è sopravvissuto.

Una madre ha perso quasi tutto in un istante. Ma Alaa non è sola. È solo una delle migliaia di madri palestinesi a cui è stato strappato il cuore. A Gaza, sono ormai più di 20.000 i bambini uccisi. Ventimila. Ventimila vite interrotte. Ventimila sogni spezzati, nomi mai più chiamati, zaini vuoti, letti gelidi, fotografie che diventano reliquie.

E noi? Noi continuiamo a contare. A misurare l’orrore con le statistiche. A discutere di geopolitica, di equilibri strategici, di diritti “di entrambe le parti”. Ma cosa resta del diritto quando la realtà è quella di un’infanzia sterminata sotto le bombe? Cosa resta della nostra umanità quando il mondo — il mondo che si proclama “civile” — si limita a esprimere “profonda preoccupazione” mentre interi quartieri vengono polverizzati e le famiglie cancellate?

C’è qualcosa di profondamente marcio nel modo in cui accettiamo l’orrore. Ogni bambino morto è una sconfitta irreparabile. Ogni silenzio complice è una ferita alla coscienza collettiva. Le immagini dei corpi avvolti nei teli, gli occhi di madri che non piangono più perché non hanno più lacrime, sono il ritratto di un fallimento planetario.

Non possiamo dire di non sapere. Non possiamo continuare a voltare lo sguardo altrove. Ogni bomba che esplode su Gaza è un’accusa anche contro di noi: contro il nostro disinteresse, contro il nostro cinismo, contro le nostre scuse e le nostre diplomazie vuote. Nessuna cultura, nessuna religione, nessuna nazione può giustificare il massacro di ventimila bambini.

Se restiamo in silenzio, siamo complici. Se non gridiamo, se non denunciamo, se non pretendiamo la fine immediata di questo scempio, allora la prossima volta che Alaa guarderà il volto senza vita di un bambino, quello sarà anche il nostro fallimento.

Non esiste pace senza giustizia. Non esiste civiltà che possa sopravvivere al silenzio su un genocidio.

È il momento di dire basta. Con tutto il fiato che ci resta. Con tutto il coraggio che possiamo trovare.

Fonte foto: web