Cultura

Il Pavese americano oltre i luoghi comuni

Restituire organicità allo sforzo intellettuale di Cesare Pavese, allargando lo sguardo verso ciò che della sua produzione letteraria risulta meno indagato, rappresenta senza dubbio il più pragmatico oltre che sensato tributo ad una personalità eclettica, troppo spesso ridotta alla (seppur complessa e affascinante) sola vicenda umana.

L’operazione di ricerca articolata in ”Cesare Pavese Mythographer, Translator, Modernist A Collection of Studies 70 Years after His Death (Vernon Press), per volontà di Iuri Moscardi (The Graduate Center, GUM’) che cura l’introduzione del volume, con il supporto di un variegato (per provenienza e background professionale) manipolo di studiosi, plasma in cornici tematiche condensate in saggi, il tentativo a settant’anni dalla morte dell’autore (2020) di enucleare e approfondire terreni poco battuti della riflessione pavesiana, sulla scorta del ciclo vitale di decadenza del diritto d’autore soprattutto in Italia (per alcune opere giunto nel 2021).
Il battesimo del fuoco spetta a Salvatore Renna (Freie Universität di Berlino) la cui disamina affonda le radici nell’accezione di paesaggio letterario, di cui è costellata la scrittura di Pavese. La cifra stilistica ed esplorativa che emerge dall’analisi di scritti, descrizioni ed intuizioni metodologiche è quella di un autore conscio di quanto il mondo antico e in particolare il mito greco sia paragonabile ad una chiave di lettura della realtà che tra rappresentazioni e distorsioni ragionate, si fa letteratura, sotto l’egida di un approccio fantastico. Tale elemento è in grado di tradurre quell’etica ed estetica dei sentimenti di cui in un paradosso solo apparente, Pavese si fa portatore, attingendo a suggestioni poetiche di epifanica concretezza.

Una dimensione tangibile è sottesa pure all’excursus proposto da Maria Concetta Trovato (Università degli Studi di Catania) e da Antonio Garrasi (Northwestern University, Chicago, Illinois) il cui focus di ricerca si concentra, in controcorrente con gli interessi letterari più diffusi, ad evidenziare quanto la presenza animale permei l’ispirazione romanzesca e poetica di Cesare Pavese non tanto e non solo sotto il profilo narrativo (gli animali di cui egli si serve a scopo creativo sono personaggi che muovono la trama in direzioni pratiche ed emotive precise) ma soprattutto sul piano relazionale, divenendo dunque fautrice di un profondo circolo vitale che coinvolge l’ uomo e l’animale.
Gli studiosi, sfogliando le pagine dei lavori pavesiani, rintracciano una volontà dialogante tra due alterità che nell’incontrarsi, evocano idealmente e plasticamente il necessario, atavico e inevitabile contrasto tra la dimensione animalesca e l’umanità, in uno scambio di evidenti differenze e punti di contatto plasmati nell’ ottica del dislivello tra impulso irrazionale e capacità razionale.
Con la parola, Cesare Pavese, filtra l’ancora attuale dissidio tra natura e cultura che nel richiamare la sensibilità d’oggi, conferma l’attualità e la lungimiranza di un pensatore capace di rintracciare nel cosmo animale un orizzonte valoriale, per renderlo parametro letterario, come dimostrano molti dei suoi testi presi in esame.
Una visione questa che corrobora come Cesare Pavese, vivesse la scrittura quale porto salvifico, caricando sulla scialuppa ogni traccia interessante dell’esistenza, ogni essere vivente, generatore di conflitto, confronto e ispirazione. Lo scrittore trovandosi faccia a faccia con l’animale, costruisce una mappatura simbolica e quasi dialettica di matrice fisiologica, etnologica, psichica, (di e con) un interlocutore rispetto al quale riconoscere una prossimità, cristallizzando limpidamente degli archetipi. Questa fratellanza, alternata allo scontro, sarà tra gli ingranaggi preminenti del suo scavo psicoanalitico interiore, fino al tragico epilogo, non privo di un’eredità evolutiva sul piano civile ed artistico.

La tensione di Cesare Pavese nel restituire centralità a categorie umane che sono cariche di verace letteratura sebbene destinate spesso alla marginalità sociale, torna nell’ampia parentesi a firma di Monica Lanzillotta (Università della Calabria) che dimostra attraverso eloquenti esempi tratti dalla letteratura pavesiana, come “La prostituta” incarni l’espediente con cui l’autore si assicura uno sguardo sempre aderente rispetto al suo tempo, al nostro e persino al futuro. Tale figura infatti fin dagli albori della sua produzione poetica (per poi snodarsi in vari altri scritti, compreso il suo ultimo romanzo, di cui si fornisce una puntuale disamina) diviene a seconda dell’esigenza narrativa, una costante nell’ economia della trama pavesiana, ricoprendo in base ai contesti, il ruolo di un alter ego rispetto all’io, di rituale (in forma umanizzata) che sancisce lo scivolare dalla fase adolescenziale a quella più matura. Tali peculiarità, nella cui placenta si agitano assunti psicologici e sociologici, evocano quella cornice urbanizzata della cui modernità Pavese riempie le pagine, offrendo al lettore frame di luoghi e consuetudini di un mestiere, destinati, nella loro poetica veracità ad appartenere all’immaginario collettivo, della letteratura come della strada.

L’attività di Pavese fu orientata pure a divulgare bellezza attraverso la lingua.
Lo dimostra Kim Grego (Università degli Studi di Milano) nel proporre una dissertazione cronologicamente fondata ed obiettiva circa il ruolo che l’intellettuale di casa nostra assunse nel sottoporre alla lettura del pubblico italiano, gli autori americani nel Novecento, fungendo da ponte tra i due idiomi. Non il solo, ma certamente tra i più rilevanti traduttori (si pensi al percorso in Einaudi) sebbene si debba certificare quanto la tempistica del suo apporto fu breve ma abbia comunque lasciato il testimone a tanti attuali “colleghi”. Cesare Pavese pur non essendo né l’iniziatore e neppure “il boia” di un filone di traduzione ancora prolifico, si configura quale tassello significativo e al contempo parte integrante del fenomeno identificato come “americanismo” avendovi impresso una traccia culturale che vale la pena di riscoprire.

Se Pavese contribuì a sdoganare le opere in lingua inglese nel Bel Paese, quanto chi parla inglese conosce Pavese?
Questo gioco di parole in rima, potrebbe riassumere la domanda sottesa al saggio nel quale Mark Pietralunga (Florida State University),sullo sfondo delle dinamiche editoriali, della propensione alla traduzione e dell’interesse del lettore straniero (americano) indaga la parabola divulgativa delle opere di Cesare Pavese, dagli esordi ad oggi (enucleando peregrinazioni, reticenze, scommesse economico- editoriali) che attualmente così come nel secondo dopoguerra, sono determinanti nel consentire che la platea americana abbia accesso al “Pavese pensiero” (questione che un volume così denso intende agevolare). Ciò per rafforzarne il profilo “popolare” che è una cifra stilistica essenziale dell’autore ma può diventare pure sinonimo di “mainstream” (preservando però la qualità).
Per rendersi conto se le idee di qualcuno hanno assunto davvero una rilevanza culturale di cui ci si possa dire consci nel quadro temporale a cui esse fanno riferimento e forse anche oltre, un buon esercizio può essere quello di confrontarle con un patrimonio altrettanto robusto. È attraverso un simile esperimento (potremmo dire dialettico) che Francesco Chianese (Cardiff University (Regno Unito) / California State University Long Beach) pone allo specchio due giganti come Cesare Pavese e Pierpaolo Pasolini, con l’intenzione di mostrare quanto due approcci differenti rispetto alla realtà (sebbene non manchino terreni condivisi quali il gusto per il mito greco, la passione per l’antropologia e la psicanalisi, l’attrazione verso gli Usa e l’indagine dell’alterità) possano condurre ad un ragionamento di grande profondità circa l’arricchimento che si cela dietro la diversità di posizioni, soprattutto perché non è sempre possibile giungere a compromessi o accordi e questo non nega la validità dei due poli analitici, anzi essa si rafforza proprio in virtù di un contraltare.
La possibilità di cimentarsi in confronti con altri grandi letterati apre la porta pure a considerazioni riguardanti la corrente stilistica della quale Cesare Pavese fu parte. Attorno al tema vi sono scuole di pensiero differenti ma nella disamina delineata da Carlo Tirinanzi De Medici (Università degli Studi di Trento), emergono nitide le tracce di un Pavese modernista (sebbene la tradizione lo identifichi come un neorealista), talvolta nell’accezione americana e in altri casi in quella europea, con derive certamente personalizzate che gli consentono di prediligere in prosa più che in poesia, una sensibilità modernista nel rapportarsi a questioni connesse alla scoperta dell’ io e riservando attenzione a figure solitarie, rendendo il suo percorso letterario denso del tempo a lui contemporaneo ma pure pregno di una trasversalità creativa spesso sottovalutata.

Considerazioni a margine
La pubblicazione di un volume di tale fattura che si distingue per la coralità dei contributi proposti su questioni spesso inedite (con l’auspicio di una traduzione italiana), sollecita almeno due filoni di considerazioni.
La cristallizzazione di Cesare Pavese (corroborata dalle sue laconiche citazioni che circolano sui social) come voce premonitrice e senza tempo del tormento intimo e dell’apatia, può essere letto sotto una nuova prospettiva.
L’idea che egli fosse affascinato dagli studi della sfera psicoanalitica (in chiave personale e non solo) e al contempo nutrisse la volontà di decodificare i valori del suo tempo tramite il confronto con il mondo animale e prestando le parole ad autori stranieri, fa riflettere su quanto l’indole refrattaria verso la socialità non coincida con una mancanza di profondità e curiosità, anzi affini un certo tipo di sguardo verso dinamiche e persone proprio perché paradossalmente emana apparente distacco, avversione, straniamento che in alcuni casi si rivela partecipazione atipica ai contesti socio-relazionali-riflessivi.
Appare altresì naturale collocare su un piano esterofilo una personalità come quella di Cesare Pavese che in sé ha tanto inglobato le influenze americane, restituendole nella sua produzione letteraria, parimenti a tutta una serie di suggestioni più autoctone ma pure mettendosi a servizio di opere straniere che l’Italia meritava di conoscere.
Nella filigrana già nota di un autore che accompagna le antologie di tutti i gradi scolastici, le reminiscenze di cultura generale e persino lo stigma suicida, si intravede, grazie all’ impegno di valenti ricercatori, l’identikit di un letterato-uomo più che di un uomo letterato.
Di norma si è tentati a cercare l’uomo dietro l’artista ma quando l’ombra dell’intimità ha già lungamente preso il sopravvento, la luce del talento merita di rimanere al centro. Di non essere più solo un satellite come la luna ma di ardere al pari di un falò irradiando versi, parole e scardinando, perché no, qualche luogo comune, nel nostro Paese ed oltreoceano.