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Napoli è sempre stata raccontata, perché è immensa. Intervista a Maurizio de Giovanni

Napoli è sempre stata straordinariamente raccontata, perché è una città che va raccontata.
Maradona mi fece vedere le foto del nipotino che giocava a pallone, era un nonno felice.

Maurizio de Giovanni è uno dei più prolifici e apprezzati scrittori e sceneggiatori contemporanei, autore di romanzi tradotti in tutto il mondo. Il Commissario Ricciardi, i Bastardi di Pizzofalcone, Mina Settembre per citare alcune serie televisive di grande successo nate dai suoi romanzi.
Nominato in questi giorni Presidente della Fondazione Premio Napoli, il più antico premio letterario italiano, ruolo che fu, tra gli altri, di Achille Lauro, Sergio Zavoli, Ermanno Rea.
Insomma napoletano nell’anima, “visceralmente tifoso della sua Napoli” come ama definirsi lui stesso, città alla quale con le sue opere ha dato e continua a dare lustro.   

La sua Napoli è una città che esporta, da sempre, storia, arte e bellezza. Oggi addirittura anche il dialetto napoletano, grazie principalmente alla televisione e allo spettacolo, è sempre più diffuso soprattutto tra i giovani. È solo un momento di particolare attenzione culturale o è il raccolto naturale di tanti anni di semina alle spalle?

Sarebbe bello poter dire che Napoli stia vivendo un momento culturale di particolare risalto e di particolare rilevanza, nella realtà dei fatti è sempre stato così: la generazione che precede la mia ha avuto scrittori del calibro di De Crescenzo, La Capria, Rea, Ortese, prima ancora c’erano i De Filippo, gli Scarpetta, Viviani, Salvatore di Giacomo, Matilde Serio, Ferdinando Russo. Napoli è sempre stata straordinariamente raccontata, perché è una città strutturata per essere raccontata. La verità non è che Napoli può fregiarsi di grandi artisti, sono i grandi artisti che hanno la fortuna di essere napoletani.

Quindi lei è fortunato ad essere napoletano, non Napoli ad annoverarla tra i suoi figli migliori…

Io sono felice di essere visto come un artefice del momento attuale, ma posso garantire che dal punto di vista narrativo e dal punto di vista della rilevanza Napoli è sempre stata feconda. Forse la mia generazione non lo è stata particolarmente, noi possiamo godere di nuove forme, quindi gente come Sorrentino, Martone, De Angelis, Di Costanzo possono raccontare Napoli in nuove maniere e nuove forme, come possiamo fare noi con le grandi serie televisive, ma è Napoli che è sempre stata protagonista di se stessa.

Protagonista ma, spesso, anche prigioniera di se stessa, se pensiamo ai pregiudizi negativi che da sempre Napoli si porta dietro, dovuti principalmente a episodi di criminalità organizzata, ma anche altri episodi, ovviamente non paragonabili fra loro, che fanno parlare di Napoli in modo negativo. Recentemente lei l’ha definita “la città più autolesionista del mondo”.

Sì, Napoli è autolesionista, ma è una grande capitale del Sud del mondo. Per capire Napoli, che è un’area metropolitana di 3 milioni e mezzo di abitanti, la più densamente popolata d’Europa, bisogna pensare a Buenos Aires, San Paolo, Rio de Janeiro, Istambul…non certo a Milano, Torino o Mantova. Va vista ed esaminata in questo modo: un luogo molto povero, molto disperato, con delle periferie abbandonate e molto degradate. Per questo Napoli è un monito oltre ad essere un laboratorio; è un monito alle istituzioni di quanto lasciare indietro una parte così importante del Paese sia un danno per il Paese intero stesso.

Ciononostante Napoli ha regalato all’umanità alcuni tra i più grandi artisti del teatro, del cinema e dello spettacolo: Totò, i fratelli De Filippo, Troisi per citarne alcuni. Soprattutto Troisi la cui comicità aveva il suo perno sull’uso del dialetto napoletano, che lo ha reso unico, oggi sarebbe avvantaggiato dal fatto che tutti, quasi, iniziano a comprendere questa lingua?

Io credo che Napoli stessa sia un linguaggio. Certo artisti come Troisi e prima di lui Totò, ma anche gli attuali Silvio Orlando, Toni Servillo, in generale i grandi attori che hanno animato e animano il cinema e la televisione italiana contemporanea, possono diffondere il napoletano. Il napoletano è un fatto di mimica, non è soltanto un linguaggio: è un modo di parlare, un comportamento, un modo di gesticolare che è immediatamente riconoscibile. Ecco, io parlerei di riconoscibilità del linguaggio e, quindi, di un modo di interagire, di incontrarsi, di parlare che le persone, anche nel resto dell’Italia, riconoscono come proprio.
I napoletani nel mondo, il fenomeno dell’emigrazione ha avuto anche questo effetto: rendere il napoletano un linguaggio universale.

Rispetto al modello di società attuale che, via via, si sta delineando, anche per il proliferare di influencer, se Massimo Troisi fosse ancora qui con noi, potrebbe essere lui stesso un influencer attraverso quei messaggi profondi che, con la sua comicità, riusciva a diffondere?

Gli influencer sono legati al fenomeno dei social network, quindi a un linguaggio nuovo. Sicuramente ci sono stati dei tempi in cui il modo di parlare e di esprimersi di grandi attori, la loro mimica, il loro modo di guardare e di intendersi era diventato un po’ come una guida che veniva seguita con grande gioia e con grande divertimento da tutti. Tuttavia credo di sì, credo che oggi questi grandi attori sarebbero degli straordinari influencer, però forse è una fortuna che non lo siano stati, una fortuna che abbiano vissuto il loro tempo e la loro epoca.

Lei è uno scrittore di chiara fama e i suoi incontri con il pubblico sono sempre molto partecipati, cosa non scontata ai tempi dei social network e degli influencer. Quale pensa sia il motivo del suo forte sodalizio con il pubblico?

Penso di essere un autore molto fortunato. Penso di aver incontrato dei personaggi diversi uno dall’altro, perché poco hanno in comune Ricciardi con Mina Settembre, o con Sara o con i Bastardi di Pizzofalcone, e che questi personaggi siano diventati, a vario modo, parte dei sentimenti e delle emozioni di molti lettori e di moltissime lettrici. Perciò credo di essere stato molto fortunato; d’altronde non ho l’ambizione, né la presunzione di essere cercato e visitato per me stesso; sono convinto che io goda di luce riflessa dei miei personaggi. E va bene così, perché non ho minimamente l’ambizione di essere illuminato da luce propria, anzi, sono molto contento di aver incontrato dei personaggi amati dalle lettrici e dai lettori.

A proposito di calcio e del legame viscerale che ha con la sua squadra del cuore, che ormai è proiettata (scongiuri del caso…perché lo dico da juventino) verso la vittoria del campionato di Serie A, che ricordo ha di Diego Armando Maradona?

Il Napoli per un napoletano è molto identitario, noi abbiamo una squadra sola, è l’unica grande città con una squadra sola; di conseguenza l’amore nei confronti del Napoli diventa l’amore nei confronti di Napoli, questo è un dato di fatto. Quelli della mia generazione che hanno avuto la fortuna di vedere giocare nel Napoli – in maniera vincente – il più grande giocatore del mondo hanno provato un’emozione difficile da dimenticare, che noi non perdiamo occasione di raccontare ai nostri figli. Adesso, alle porte di un momento in cui forse – e sottolineo forse (altri scongiuri…) – il Napoli tornerà ad essere vincente, ancora di più vale la pena di ricordare i tempi del miglior giocatore del mondo.
Io personalmente ho di lui un ricordo bellissimo quando fui invitato ad accoglierlo insieme ad altri artisti al San Carlo, in occasione di uno spettacolo a cui lui presenziò, tenuto in suo onore e organizzato da Alessandro Siani. Quella sera andammo a cena e io ebbi la fortuna di capitargli proprio di fronte e lui mi fece vedere, sul suo telefonino, le fotografie del suo nipotino: era un nonno, un normale nonno felice al quale brillavano gli occhi. Faceva vedere questo bambino che giocava con un pallone, ed era veramente delizioso. Ecco, questo è il ricordo più tenero di Maradona che porto con me, nonostante io abbia visto le sue straordinarie gesta sul campo. Un nonno felice, umano, al quale brillavano gli occhi.