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Resistere alla logica della guerra significa sottrarsi alla sua potenza seduttiva

Il problema della guerra è un problema storico, anzi, è il problema storico. Che la storia possa contenere la guerra, almeno come possibilità, è un dato empirico inesorabile.
Guerra e pace appaiono come una dualità inscindibile che procede come verità necessaria proprio dalla natura dell’uomo storico. Siamo consapevoli che la pace non è realizzabile all’interno della storia umana, ma questo non deve sottrarci al compito di tendervi incessantemente. Il conflitto in Ucraina, come tutte le guerre moderne, impone una particolare riflessione etica sulla guerra giusta e sul bene assoluto della pace. Ogni conflitto bellico, come si può facilmente intuire, costituisce una specie ben determinata di violenza di cui bisogna analizzare il meccanismo prima di formulare qualsiasi giudizio etico. Il massacro che sta dilaniando l’Ucraina, al pari di altre aggressioni militari, svela tutto il carico di atrocità e morte che solo una violenza armata può generare. La novità di questo conflitto, tuttavia, è rintracciabile non solo nella resistenza coraggiosa di coloro che muoiono in battaglia, ma anche di quelli che sono coinvolti emotivamente o impegnati in azioni di solidarietà: è la resistenza alla logica della guerra. Resistere alla logica della guerra significa sottrarsi alla sua potenza seduttiva, al fascino del male che sprigiona. Ciò che inquieta, in questo conflitto, è la riscrittura degli avvenimenti bellici come se fossero puntate di un soap opera.  Qualche tempo fa i social hanno enfatizzato un episodio piuttosto singolare: in un fascio di luce proiettato su un palazzo di Kiev era comparsa la scritta 100k, dove il numero rispecchiava la somma dei soldati russi uccisi. Mi chiedo – al di là dei crimini che si stanno consumando negli scontri – è così esaltante promuovere l’uccisione di centomila soldati come se fossero i raggi luminosi con cui si addobbano le case e i monumenti a Natale? In parte sì. La guerra ha la forza di dissacrare e presentare il male come se fosse bene. E così abbiamo imparato a vedere delle immagini prorompenti: una ragazzina con il lecca–lecca e il fucile è apparsa ai nostri occhi come un’eroina della resistenza; ma è allo stesso tempo vittima della violenza di una guerra che ancora una volta si presenta come un’inutile strage. E, mentre dagli schermi di televisori e computer ragazzi e giovani vedono la guerra, parlano di guerra, i grandi sono impegnati a dividersi le porzioni di questo mondo che, attonito e incredulo, osserva le bombe che cadono uccidendo piccoli, dividendo famiglie, seppellendo civili e militari di ogni età. La violenza bellica, in questo conflitto, è contemplata come una forma di libertà; il popolo ucraino ha il dovere di difendersi da un’aggressione brutale e immotivata, ma resistere alla logica della guerra significa avere la forza di rifiutare tutto questo e provare orrore per tutte quelle forme seducenti che essa incarna. Anche la difesa, come sappiamo, è soggetta a limiti morali e non vale il detto latino “in guerra tutto è consentito”. Non possiamo lasciare che la coscienza si persuada che tutto questo faccia parte di noi. Essa è sempre disumanizzante e non ha nulla di bello o fascinoso, per questo ognuno dovrebbe avere la capacità di contrappore alla forza che si nutre della sua brutalità, quella che va a cercare al di fuori di sé, al di sopra di sé un principio di vita e di rinnovamento. Perché, mentre quella va logorandosi a poco a poco, questa si rifà senza posa. Quella vacilla già, questa resta incrollabile.