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Nuova direttiva Case green: cosa c’è dietro la scia di polemiche?

Il Parlamento europeo ha approvato il 14 marzo con 343 voti favorevoli, 216 contrari e 78 astensioni la cosiddetta Direttiva Case Green (Energy Performance of Buildings Directive, EPBD) cioè la revisione della direttiva sull’efficienza energetica in edilizia.

Appena arrivato il via libera si è subito scatenato un coro di polemiche soprattutto nel nostro Paese.

Eppure, ad approfondire il tema, il contenuto della Direttiva non rappresenta una novità, ma rientra pienamente nella politica green a cui tutti i paesi dell’Unione, attraverso i propri rappresentanti, hanno pienamente aderito.

L’obiettivo della Direttiva è infatti più che nobile: aumentare le ristrutturazioni in modo da ridurre in modo drastico il consumo energetico e le emissioni degli edifici, dando cioè realizzazione pratica all’abbattimento delle emissioni inquinanti ed eliminare gradualmente l’uso di impianti di riscaldamento a combustibili fossili entro il 2035 o non oltre il 2040.

Questa normativa, che certo non rappresenta comunque una scelta improvvisa e inaspettata, rappresenta soltanto un primo passo perché da questo momento saranno avviati i negoziati con tutti i governi dell’Unione per concordare insieme, come si fa per qualunque legislazione europea, le modalità di applicazione nei vari paesi.

Cosa dice in sostanza la nuova Direttiva?

Dal 2026 dovranno diventare a zero emissioni tutti i nuovi edifici utilizzati o gestiti dal pubblico e di proprietà di enti pubblici

Gli edifici non residenziali e quelli pubblici dovranno raggiungere la classe di prestazione energetica E entro il 2027 (E) e D entro il 2030 (ci si riferisce alla cosiddetta certificazione APE, l’attestato che riporta tutte le informazioni sull’isolamento termico e il consumo energetico con cui è stato costruito un edificio).

Inoltre, dal 2028 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere a emissioni zero e dotati di tecnologie ad alimentazione solare se ciò risulta tecnicamente funzionale ed economicamente fattibile.

Gli edifici residenziali dovranno raggiungere, come minimo, la classe di prestazione energetica E entro il 2030, e D entro il 2033.

Gli altri edifici residenziali pre-esistenti dovranno rispettare entro il 2032 i nuovi requisiti qualora risultino soggetti ad importanti ristrutturazioni.

Ricordiamo che gli edifici presenti sui territori europei sono responsabili del 40% del consumo energetico e del 36% delle emissioni di gas a effetto serra.

Ci sono comunque delle esclusioni. La nuova Direttiva non si applica a varie categorie di edifici quali monumenti, edifici tutelati di particolare valore architettonico o storico, edifici di pregio artistico o storico, le seconde case e quelle con una superficie inferiore ai 50 metri quadrati, chiese e luoghi di culto, ecc., potranno essere escluse anche costruzioni di edilizia sociale pubblica o altri edifici sulla base della fattibilità economica e tecnica.

Già dal mese di dicembre 2021 la Commissione aveva approvato una proposta legislativa di revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia del pacchetto normativo  ‘Fit for 55%’ su cui tutti i paesi europei attraverso i loro delegati hanno concordato. Quindi la normativa non rappresenta una novità sostanziale, ma soltanto l’applicazione di politiche approvate da anni.

Tutto questo porterà ad un ampio programma di ristrutturazione degli edifici inefficienti sotto il profilo energetico per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Sicuramente questo ambizioso programma non è a costo zero, richiede impegni finanziari ad ampio raggio e saranno proprio i singoli Paesi Ue a trovare le misure adatte a raggiungere questi obiettivi e applicare regimi di sostegno economico ai cittadini coinvolti. D’altra parte, le ristrutturazioni consentiranno di migliorare le prestazioni degli edifici europei ed abbattere il peso delle bollette e la dipendenza dalle importazioni di energia (che sappiamo bene cosa sta provocando a livello geopolitico).

Ma allora perché tutte queste polemiche?????

Sappiamo che il contesto territoriale, storico, urbanistico e architettonico italiano è particolare, ma molte questioni dovranno essere risolte proprio attraverso il futuro Trilogo, cioè il negoziato tra Parlamento, Commissione e Consiglio e attraverso la modalità con cui ogni Paese recepirà la Direttiva. Insomma, c’è tempo e servirà un piano nazionale.

Certo in Italia circa il 60% degli edifici è oggi in classe F e G; quindi, il passaggio di classe energetica è quantitativamente molto impattante e l’esborso economico sarà consistente. Stime Ance, Associazione nazionale costruttori edili, indicano per l’Italia entro il 2033 circa 200.000 interventi di ristrutturazione su singoli edifici all’anno (nel 2022 con ecobonus e superbonus erano 260.000) e il costo arriverebbe circa a 40-60 miliardi di euro annui.

Ma i problemi principali di realizzazione della normativa forse sono due.

In Italia siamo ancora sotto lo shock della modalità errata con cui è stata applicata la normativa del cosiddetto superbonus che ha dato adito a speculazioni e iniquità. Ma se è stato commesso un errore sarebbe opportuno imparare ed applicare per il futuro normative trasparenti che non diano luogo a distorsioni del mercato.

Il secondo problema è rappresentato dalla mancata armonizzazione della classificazione energetica che è diversa fra i vari Stati, con la conseguenza che il raggiungimento di una data classe energetica si differenzia fra i vari Paesi creando un grande caos organizzativo e applicativo. Servirebbe invece una classificazione unica in tutta Europa.

Il rischio è che, da un lato, l’incapacità di mettere in pratica normative di facile applicazione a livello nazionale e, dall’altro, la scarsa unitarietà fra i paesi europei possano compromettere una opportunità che può creare occupazione di qualità, innovazione, ricchezza e sviluppo green.