Da “First Buddy” a “nemico pubblico n.1”: Elon Musk rompe con Trump e lancia un nuovo partito per “salvare l’America dal monopartitismo della corruzione”. Analisi di un’alleanza svanita e di un movimento tutto da decifrare.
di Pippo Gallelli
C’erano una volta un visionario della Silicon Valley e un ex imprenditore immobiliare con l’hobby della politica. Uniti da una concezione piuttosto elastica della modestia e da una passione condivisa per i social, Elon Musk e Donald Trump hanno dominato per mesi la scena americana con un sodalizio tanto rumoroso quanto improbabile. Musk, ribattezzato con sarcasmo “First Buddy” della Casa Bianca, sembrava aver trovato nell’ex presidente un partner ideale per rivoluzionare, o almeno disintegrare, le regole del gioco.
Ma come ogni storia d’amore nata in pubblico e alimentata da post su X (ex Twitter), anche questa ha avuto una fine fragorosa. L’ultimo atto è andato in scena proprio il 4 luglio, quando Musk ha annunciato, con la consueta sobrietà che lo contraddistingue, la nascita dell’America Party, nuovo movimento politico lanciato in nome della libertà e dell’indipendenza dal sistema a due partiti. Secondo il miliardario, gli Stati Uniti vivrebbero in una “democrazia fittizia”, soffocati da un sistema “monopartitico” in cui sprechi e corruzione si moltiplicano. E poiché la democrazia, nel XXI secolo, si misura a suon di click, Musk ha sottoposto la questione a un sondaggio online: 1,2 milioni di utenti hanno risposto, con il 65% favorevole alla creazione di un nuovo partito. Più che sufficiente per dare il via libera all’ennesimo progetto politico-manageriale del tycoon.
La rottura con Trump, in realtà, era nell’aria da tempo. Il punto di non ritorno è stato il varo del gigantesco pacchetto finanziario ribattezzato “One Big Beautiful Bill”, una legge di bilancio da 940 pagine che ha messo nero su bianco tutte le promesse elettorali del presidente: tagli alle tasse, nuovi fondi per le frontiere, incentivi selettivi e un’espansione della spesa pubblica di proporzioni trumpiane. Firmato alla Casa Bianca con entusiasmo, e salutato come l’inizio di una “nuova età dell’oro”, il provvedimento ha provocato l’immediata reazione di Musk, che lo ha bollato come un disastro economico e una truffa ai danni dei contribuenti. La sua opposizione è diventata via via più feroce, fino ad arrivare a una minaccia esplicita rivolta ai parlamentari: “Perderete le elezioni, anche se fosse l’ultima cosa che farò”.
Trump non ha preso bene l’affronto. Ha minimizzato, liquidando le critiche come il capriccio di un miliardario contrariato per la fine dei sussidi alle auto elettriche. E, per non farsi mancare nulla, ha persino accennato all’ipotesi di deportarlo. Che tra i due non scorresse più buon sangue era chiaro già da mesi, ma ora siamo al livello del duello al tramonto, con accuse reciproche, insinuazioni e ripicche da tardo impero.
Resta da capire cosa sia davvero l’America Party. Per ora, più che un partito, sembra un’idea: un contenitore ancora vago, ma già investito del compito messianico di rappresentare chi non si riconosce né nei Democratici né nei Repubblicani. La sua identità è fluida, e le linee guida sono ancora tutte da scrivere. Ciò che è certo è che Musk punta a intercettare quella parte dell’elettorato disillusa, stanca del sistema tradizionale e attratta da un’idea di cambiamento radicale, anche se indefinito. In questo, il nuovo movimento si inserisce nella lunga tradizione americana dei candidati outsider che promettono di scardinare il sistema dall’interno. Solo che questa volta, al posto di un agricoltore dell’Iowa o di un miliardario texano con l’accento da cowboy, c’è un imprenditore sudafricano con un razzo pronto per Marte.
Le ambizioni sono enormi, come sempre accade quando Musk si cimenta in qualcosa. Ma che l’America Party possa realmente sfidare i due colossi della politica americana è tutt’altro che scontato. Al momento è più plausibile che la sua nascita serva a influenzare il dibattito, a spostare gli equilibri, a mettere pressione ai candidati più istituzionali. In altre parole, a fare rumore. E in questo, Musk è maestro.
Nel frattempo, la parabola della sua amicizia con Trump ci ricorda che in politica, come nella tecnologia, l’alleanza tra ego smisurati dura finché non c’è un budget da spartire o un algoritmo da controllare. Quando il potere è in palio, anche le bromance più glamour finiscono tra i tweet di fuoco e le minacce velate. E se nel frattempo nasce un nuovo partito? Poco male. L’importante è che se ne parli.