Società

Nella morsa del caldo: il lavoro da tutelare e la realtà del cambiamento climatico

Le immagini drammatiche che arrivano in queste ore da ogni parte d’Italia — turisti stroncati in spiaggia, anziani soccorsi per disidratazione, blackout in città, sottopassi allagati e linee di trasporto pubblico paralizzate — sono molto più di notizie di cronaca estiva. Sono il sintomo di una trasformazione climatica ormai sotto gli occhi di tutti. E che impone una domanda cruciale: come si lavora, e come si può ancora lavorare, in un mondo che cambia così rapidamente?

La firma del protocollo caldo tra il ministero del Lavoro, sindacati e associazioni datoriali rappresenta un primo passo importante: riconosce che il lavoro, soprattutto quello svolto all’aperto, è oggi una delle prime vittime del riscaldamento globale. Non è un dettaglio, né una questione solo sindacale: è una questione di civiltà.

In Italia, tra i settori maggiormente colpiti vi sono l’agricoltura, l’edilizia, la logistica e la ristorazione “on demand”. Lavoratori nei campi, muratori, rider che consegnano sotto il sole delle 14, camionisti bloccati nelle cabine roventi per ore. E non si tratta più di emergenze isolate, ma di una realtà sempre più sistemica.

Il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ha esteso l’ordinanza anti-caldo ai rider: «Un gesto di civiltà», ha dichiarato, sottolineando l’urgenza di regolamentare orari e condizioni per chi lavora in mezzo alla strada, spesso alle dipendenze di piattaforme multinazionali che finora hanno mostrato ben poca attenzione alla salute di chi garantisce il servizio.

Nel frattempo, Confindustria e le sigle sindacali riconoscono l’importanza di flessibilità negli orari, di turni spostati alle ore più fresche del giorno e della fornitura di strumenti essenziali — acqua, sali minerali, abbigliamento adeguato. Coldiretti lancia l’allarme: le alte temperature mettono a rischio sia le colture che i lavoratori stagionali, proponendo l’estensione della cassa integrazione per eventi climatici estremi.

E allora è tempo di dirlo chiaramente: negare ancora il cambiamento climatico significa negare la realtà.

La scienza lo dice da anni. I dati lo confermano. Ora sono i corpi dei lavoratori a gridarlo. E mentre qualcuno continua a giocare con il negazionismo climatico per convenienza ideologica o interesse economico, la temperatura reale — quella che si misura nei cantieri, nei magazzini, nelle campagne — supera i 40 gradi.

A Versailles, una bambina di 10 anni è morta per un infarto che potrebbe essere stato causato da un colpo di calore. In Sardegna, due turisti sono deceduti in spiaggia. A Genova, un anziano è morto al pronto soccorso, disidratato. Un camionista è stato trovato privo di vita in una piazzola sulla A4. Le strade si sciolgono, l’asfalto cede, l’elettricità salta.

Eppure, in troppi ancora si interrogano se davvero il clima stia cambiando.

Il lavoro è il primo campo di battaglia della crisi climatica. Lo è nella fatica quotidiana, nella malattia, nei rischi. Ma anche nella capacità – o nell’incapacità – della politica e dell’impresa di reagire. L’accordo firmato al ministero del Lavoro va nella direzione giusta, ma non basta: occorre un ripensamento radicale delle regole, delle tutele e degli orari. Occorre un nuovo patto sociale che tenga conto della realtà climatica del XXI secolo.

Il cambiamento climatico non è più una previsione per il 2100. È oggi, è qui. È dentro le giornate di chi lavora, nelle disuguaglianze che si ampliano, nella fragilità delle infrastrutture. E allora, se davvero vogliamo tutelare il lavoro, se davvero crediamo che la dignità delle persone venga prima del profitto, dobbiamo agire ora. Prima che anche il lavoro, oltre al clima, vada in frantumi.