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La schiena dritta di Pedro Sánchez e la vittoria delle armi: il vertice NATO tra diplomazia e imposizione

Di fronte a un Donald Trump euforico per il “successo monumentale” della NATO, Pedro Sánchez ha scelto la via più difficile: quella della sovranità e della dignità nazionale. Ma quanto durerà la serenità apparente del presidente statunitense? E chi ha davvero vinto al vertice dell’Aja?

di Pippo Gallelli

All’Aja, tra convenevoli diplomatici e dichiarazioni roboanti, è andato in scena un vertice NATO che passerà alla storia più per la forma che per la sostanza. Donald Trump ha ottenuto quello che voleva: un impegno formale a portare la spesa militare al 5% del PIL entro il 2035. Lo ha fatto con il piglio del dominatore, il tono del ricattatore e l’incedere del venditore a cui non si può dire di no. Ma non tutti si sono piegati.

Pedro Sánchez, primo ministro spagnolo, ha tenuto la schiena dritta. La Spagna, ha rivendicato, ha diritto a una traiettoria differente, che tenga conto delle priorità sociali e del benessere interno, non solo delle esigenze strategiche imposte da Washington. Per questo Madrid non ha accettato il diktat del 3,5% fisso, preferendo affidarsi a un calcolo differente basato sulle proprie capacità militari. Un’eresia per Trump, che ha risposto con minacce di dazi e ricatti economici: “Alla fine pagheranno il doppio”, ha tuonato, evocando lo spettro della distruzione dell’economia spagnola.

Ma dietro la retorica muscolare si nasconde una realtà più complessa: il compromesso raggiunto è volutamente ambiguo. La dichiarazione finale equipara l’obiettivo numerico del 3,5% con la soddisfazione degli “obiettivi di capacità”, lasciando aperta una porta di uscita a chi – come la Spagna – intende rivendicare un margine di autonomia. È un gioco di specchi diplomatico, utile a salvare la faccia di tutti, ma che non cancella il vero nodo politico: l’Europa ha ceduto ancora una volta all’imperativo americano della militarizzazione.

La vittoria delle armi, la sconfitta della visione

Trump può intestarsi un successo storico: con il suo ritorno sulla scena ha ottenuto un impegno da 1.000 miliardi di dollari annui in spese militari aggiuntive. E lo ha fatto con una logica da CEO del comparto difesa: quei soldi, ha detto, “devono andare in hardware serio, made in America”. Non è difficile immaginare chi ne trarrà profitto.

Nel frattempo, il principio sacro dell’articolo 5 – “uno per tutti, tutti per uno” – è stato confermato a parole, ma svuotato nei fatti. Il supporto all’Ucraina resta affidato alla buona volontà dei singoli, e il tanto sbandierato “percorso irreversibile” verso l’ingresso di Kiev nella NATO è misteriosamente scomparso dal comunicato finale. Un favore fatto a Mosca, forse, o semplicemente l’ennesima dimostrazione che, dietro i sorrisi, prevalgono interessi divergenti e visioni inconciliabili.

La calma apparente di Trump: quanto durerà?

Trump è uscito trionfante, ma la sua instabilità è il vero fattore imprevedibile dell’equazione. Tra boutade paternaliste (“Rutte mi ha chiamato papà”) e paragoni infantili (“Israele e Iran sono come bambini che litigano”), il presidente americano si è mostrato ancora una volta imprevedibile, teatrale, quasi caotico. Ha evocato un possibile accordo con l’Iran, salvo poi rivendicare bombardamenti “simili a Hiroshima”. Ha detto che il programma nucleare iraniano “è finito”, ma la sua stessa intelligence lo ha smentito poche ore dopo.

La sua serenità odierna – fatta di colazioni reali e dichiarazioni sulla bellezza degli alberi olandesi – rischia di trasformarsi presto in uno dei suoi consueti scatti d’ira. E allora, basterà davvero un comunicato ambiguo a proteggere chi come la Spagna cerca di resistere?

Conclusione: tra sovranità e sudditanza

Il vertice dell’Aja ha sancito un principio chiaro: gli Stati Uniti continuano a dettare la linea, e l’Europa, nella sua maggioranza, si adegua. Ma la posizione spagnola dimostra che una via diversa è possibile, almeno per ora. Pedro Sánchez, pur isolato, ha parlato a nome di chi non vuole ridurre la politica estera a una corsa al riarmo. È un messaggio scomodo, minoritario, ma necessario.

Perché alla fine, se a vincere sono sempre e solo le armi, a perdere sono i cittadini europei, le loro priorità, la loro pace. E forse anche la loro democrazia.