di Pippo Gallelli
C’era una volta Elon Musk, il visionario dei razzi, delle auto elettriche e dell’intelligenza artificiale. L’uomo che si atteggiava a Tony Stark ma finiva sempre per somigliare più a un Lex Luthor sotto acido. L’idolo delle folle libertarie e dei libertari da tastiera. L’oracolo che aveva abbracciato la causa di Donald Trump con un fervore quasi fanatico, erigendosi a portavoce del MAGA 2.0.
Oggi? È un problema da gestire, anzi un problema rimosso, ufficialmente, dal Governo. Un ex alleato imbarazzante. Un fardello tossico per una campagna elettorale già appesantita da dazi economici impopolari, accuse giudiziarie e una base elettorale sempre più logora.
Il guru della Silicon Valley, che doveva traghettare l’America verso il futuro, ora sembra più un relitto del presente. Un meme vivente, incagliato tra deliri su X (il social che ha preso a picconate dopo averlo acquistato), processi interni alle sue aziende e una crescente fascinazione per leader autoritari, complottismi pandemici e libertà d’espressione a geometria variabile.
Il Doge – quella creatura politica ibrida e un po’ farsesca, partorita dalla mente del tycoon per dare un ruolo ufficiale al suo “first buddy” – ha perso il suo doge. Elon saluta dopo appena 135 giorni, non senza un ultimo teatrino nello Studio Ovale: l’ennesima performance surreale di una delle coppie più strane e disfunzionali della politica recente.
“È fantastico!”, ha detto Trump con il suo consueto entusiasmo da televendita nel corso della conferenza stampa che ha sancito la fine del ruolo di Musk al Dipartimento per l’Efficienza del governo . “Sarà sempre con noi”, ha aggiunto, come se parlasse di un fantasma. Musk, per l’occasione, ha scelto una mise da manuale della provocazione: maglietta nera con la scritta The Doge Father, cappellino d’ordinanza (ma senza la consueta scritta MAGA, segno che qualcosa si è incrinato) e sguardo truce, complice anche un livido sotto l’occhio, spiegato – poco credibilmente – con una “lotta col figlio”.
Dietro sorrisi e pacche sulle spalle, però, si è consumata una rottura lenta e clamorosa. Prima le frecciate sui dazi (“una follia economica”, aveva dichiarato Musk). Poi la pugnalata diplomatica, con l’accordo firmato ad Abu Dhabi con il suo eterno rivale, Sam Altman. Infine, la goccia che ha fatto traboccare il contenitore delle pillole: l’inchiesta del New York Times sulle abitudini tossiche del “Dogefather”, che – a quanto pare – non disdegnava né ketamina né funghi allucinogeni mentre giocava al piccolo riformatore della burocrazia federale.
L’establishment repubblicano, che fino a ieri lo blandiva come il “genio antisistema”, oggi fa finta di non conoscerlo. La sua esclusione (evidentemente pilotata) da diversi organi di consulenza economica e tecnologica legati al governo è un segnale chiaro: anche gli ultrà del trumpismo sanno riconoscere una mina vagante quando la vedono. E Musk, con il suo comportamento erratico e le sue uscite psichedeliche – in tutti i sensi – era ormai diventato ingestibile.
Mentre la stampa scava nei suoi bagagli farmacologici e nelle foto che mostrerebbero batterie intere di pillole, Musk si trincera dietro il solito vittimismo social: “Fake news, come il Russiagate!”. Un copione stanco, ripetuto così spesso da non far più nemmeno notizia.
Intanto, Tesla crolla. I razzi esplodono. Marte si allontana. E il sogno di Elon – essere l’anello mancante tra Henry Ford e Thomas Jefferson – si sgonfia come un pallone sonda cinese. Trump incassa la defezione, perde un alleato potente e ultrafinanziato (270 milioni di dollari sborsati da Musk per la campagna), ma guadagna un grattacapo in più: la sua credibilità, già messa alla prova da dazi impopolari e dalle aule di tribunale, è ora legata anche alle bizze di un ex partner politico accusato di fare uso quasi quotidiano di ketamina. Magari tra un incontro col presidente e un comizio sulla deregulation.
Per Trump, che cerca disperatamente di rattoppare la sua immagine da “uomo forte dell’economia” mentre difende politiche commerciali che penalizzano proprio le classi medie che dovrebbe conquistare, il caso Musk è più di un fastidio: è un danno collaterale che rischia di diventare fatale. Quando il tuo “evangelista tecnologico” finisce nei titoli per abuso di sostanze, e non per lanciare razzi su Marte, il messaggio è chiaro: l’era dell’ottimismo MAGA si sta spegnendo sotto una coltre di fumo… e non solo metaforicamente.
Così Elon Musk, un tempo idolo bipartisan, si ritrova oggi simbolo perfetto della decadenza trumpiana: arrogante, confuso e ormai del tutto incapace di mantenere le promesse mirabolanti con cui aveva incantato il mondo.
È la fine di un’illusione a propulsione chimica. Un’odissea spaziale che, invece di condurre su Marte, ci ha riportati sulla Terra. E non è stato un atterraggio morbido.