di Pippo Gallelli
Se c’è una costante nella storia del Vaticano, è la sua straordinaria capacità di muoversi come un abile stratega: silenzioso, paziente, spesso sottovalutato. E proprio quando il mondo sembra averne decifrato le logiche, ecco il colpo di scena. L’elezione di Papa Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost, è l’ultima mossa di una partita che si gioca su più livelli: teologico, culturale e, soprattutto, geopolitico. A essere colta di sorpresa, per usare un termine calcistico (soccer, negli USA), è stata proprio l’America trumpiana, al di là delle dichiarazioni rese nell’immediatezza dell’elezione.
L’altro volto dell’America: non Trump, ma Prevost
Fino a ieri, Donald Trump era il nome americano più riconoscibile sulla scena globale: per alcuni un simbolo di forza, per altri di divisione. Oggi quel primato è messo in discussione da un’elezione che ha il sapore di una risposta indiretta, ma inequivocabile. Sì, il nuovo Papa è americano. No, non è l’americano che Trump e il suo universo religioso desideravano.
Un universo imbevuto di fanatismi, come la teologia della prosperità di Paula White, di telepredicatori che inneggiano a Trump come “l’unto del Signore”, e di un populismo ecclesiale che trasforma l’altare nel prolungamento del podio politico. La visione di Papa Leone XIV è chiaramente diversa, radicata nel magistero sociale della Chiesa più che nei dogmi nazionalisti.
Lo sdegno del mondo MAGA: Bannon e Loomer all’attacco
Che l’elezione di Prevost non sia stata digerita dagli ambienti trumpiani lo dimostrano le reazioni scomposte del mondo MAGA, arrivate puntuali e rumorose. Steve Bannon, ex stratega di Trump, ha definito seccamente la scelta del Conclave: «Leone XIV è un Papa anti-Trump e la peggior scelta per i cattolici MAGA».
Ancora più virulenta la reazione di Laura Loomer, influencer cospirazionista di estrema destra e figura molto ascoltata nei circoli trumpiani. Ha accusato Prevost di essere «anti-Trump, anti-MAGA, favorevole alle frontiere aperte e un marxista convinto come Papa Francesco», concludendo che «i cattolici non hanno nulla di buono da aspettarsi. Un’altra marionetta marxista in Vaticano».
Parole estreme, certo, ma che rivelano quanto profondo sia il senso di tradimento percepito da una parte dell’America religiosa, che si aspettava un Papa “alleato” e si ritrova invece con un Pontefice lontano anni luce dalla retorica dell’“America First”. Leone XIV parla a un’America più silenziosa, ma non meno profonda: quella delle parrocchie operaie, dei vescovi che camminano nelle carceri, dei teologi che mettono la dignità prima del potere.
Israele, Ucraina e le geografie mutevoli della diplomazia vaticana
Al di là delle questioni teologiche, l’elezione del nuovo Papa scompiglia le carte. E, come il suo predecessore, rimette la pace al centro. Nel suo primo discorso pubblico, Leone XIV ha pronunciato più volte la parola “pace”. Non è solo retorica: è una dichiarazione d’intenti. E un messaggio diretto a due teatri strategici: Ucraina e Medio Oriente.
Mentre i grandi della Terra si incartano sui conflitti in corso, il nuovo Papa sposta il dibattito su un piano più alto: quello della diplomazia umanitaria, che non cerca vittorie ma riconciliazioni. La sua provenienza statunitense non è un dettaglio irrilevante.
Significativo, in tal senso, il cambiamento di tono da parte di Israele, che ha accolto il nuovo Pontefice con una disponibilità che mancava nei confronti di Francesco. È presto per dire se ciò condurrà a un dialogo più profondo, ma è evidente che il Vaticano intende rientrare nella partita mediorientale con una postura diversa: meno ideologica, più attenta agli equilibri reali.
Il Vaticano: potenza silenziosa in un mondo liquido
Papa Leone XIV, come il suo predecessore, è destinato a sorprendere. Non solo perché è americano, ma perché è l’opposto di ciò che molti si aspettavano da un Papa americano. Si ha la sensazione, leggendo la sua biografia, che possa essere un leader globale che non urla, ma costruisce. Che non cerca lo scontro, ma il senso. Che riporta al centro della scena una Chiesa capace di parlare al mondo senza parlare come il mondo.
La sua elezione — si perdoni la metafora calcistica — è un contropiede manovrato, studiato con la calma millenaria propria delle cose vaticane. Chi considera il Vaticano un potere in declino, legato a liturgie e incensi, ignora la sua capacità di reinventarsi senza snaturarsi. È un attore globale che non ha bisogno di carri armati per contare, ma che sa farsi sentire quando serve.
La scelta di un Papa americano non è né una concessione né una captatio benevolentiae: è una mossa che ricorda al mondo come la Santa Sede, anche nella sua visione geopolitica, comprenda e percepisca gli equilibri più profondi. E piazzi le sue mosse con consapevolezza. Perché, in fondo, il trono di Pietro resta uno dei luoghi più strategici del pianeta.
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